Il movimento delle Università Popolari si è sviluppato
e diffuso soprattutto nel primo decennio del XX secolo, ma già
nella prima metà del XIX secolo se ne conoscono esperienze in Danimarca
e Svezia, ed in Inghilterra alla fine dello stesso secolo. La diffusione
fu rapida nei paesi dell’impero britannico, in Belgio, Francia,
Austria, Germania, Svizzera, Olanda, Ungheria e persino nella Russia degli
zar, compatibilmente con la censura. Tutta l’Europa era attraversata
da questo interesse per l’istruzione popolare come qualificato mezzo
di emancipazione proletaria. Sorsero associazioni di studenti con il proposito
di diffondere l’istruzione tra il popolo per mezzo di conferenze,
dibattiti, distribuzione di opuscoli e libri; si mobilitarono uomini di
cultura, intellettuali, dirigenti politici e sindacali. Tra il 1900 ed
il 1901 nacquero Università Popolari anche in Italia. A Torino
grazie ad una sinergia tra un gruppo di intellettuali ed associazioni
operaie; a Roma grazie ad un gruppo di docenti con persino inaugurazione
del ministro dell’istruzione in carica, on. Nasi; a Venezia fu invece
il comitato operaio della Libera Scuola Popolare a farsi carico della
nascita dell’Università Popolare. A Milano venne fondata
da gruppi di impiegati e lavoratori; a Padova da studenti universitari;
a Bologna dalla Lega Operaia e dall’Associazione Universitaria.
Nel 1901 aprirono anche Pisa, Messina, Napoli, Livorno, Ferrara, Palermo,
Mantova, Trieste, Genova, Benevento, Piacenza, Firenze, Alessandria in
Piemonte ed….Alessandria d’Egitto!
Questa esplosione di esperienze di università popolari in Italia
non potrebbe essere capito senza considerare il ruolo fondamentale della
rivista denominata Università Popolare, che venne fondata a Mantova
nel 1901 e diretta dall’anarchico Luigi Molinari fino al 1918. Fu
questa rivista a far conoscere in Italia le esperienze in corso all’estero
e ad essa fecero riferimento tutte le Università Popolari italiane
man mano che nascevano e si organizzavano. Il dibattito pedagogico sulla
rivista era reso vivo dal grande significato politico che si attribuiva
al binomio educazione popolare/emancipazione proletaria ed all’impostazione
laica, scientifica, non-dogmatica delle attività culturali che
dovevano caratterizzare le Università Popolari. Lo stesso aspetto
organizzativo suscitava grande scambio di idee affinché le università
popolari raggiungessero anche i piccoli centri ed avessero un forte legame
con le organizzazioni operaie. Va da sé che la diffusione della
rivista era a tal fine di fondamentale importanza, come chiedevano e riconoscevano
i suoi collaboratori più noti: Roberto Ardigò, massimo esponente
del positivismo italiano, che non voleva farne delle accademie per borghesi
e pretendeva professionalità e specializzazione nei docenti; Andrea
Costa che riteneva fondamentale uno stretto rapporto tra università
popolari e camere del lavoro per finalizzare i contenuti delle discipline
agli interessi operai; il criminologo Alessandro Groppali che condivideva
le preoccupazioni dell’Ardigò; il noto maestro anarchico
di Jesi Luigi Fabbri che sottolineava l’importanza dello scambio
docente/allievo, l’insegnamento sperimentale delle scienze ed una
storia non troppo ideologizzata. E poi ancora i Bonomi, i Castelli, i
Ferrero, Ferri, Ghisleri, Grave, Ravanelli, Sergi, Treves.
La rivista diveniva così portavoce di due esigenze: quella educativa
e quella di lotta. Seguì da vicino nel 1903 a Milano il primo convegno
dei rappresentanti dei diversi istituti che decisero di attivare più
biblioteche e sale di lettura dove non esistevano in collaborazione con
le Camere del Lavoro; diede voce al convegno di Firenze del 1904 dove
le Camere del Lavoro raccolsero l’appello lanciato l’anno
prima a Milano. Nel 1906 si tenne il primo congresso internazionale per
l’educazione popolare, dove si confrontarono le posizioni dei socialisti
e degli anarchici. I primi erano fautori dell’intervento statale
nell’istruzione, i secondi sostenevano che l’educazione e
l’istruzione dovevano essere completamente estranee al controllo
dello Stato.
La rivista accentuò così un approccio più libertario
ai problemi della pedagogia e delle libere scuole moderne che si andavano
diffondendo in Europa sulla base dell’esperienza spagnola di Francisco
Ferrer (fucilato a Montuijch il 13 ottobre 1909 come sovversivo). La svolta
della rivista suscitò critiche in seno al movimento anarchico:
Camillo Berneri (assassinato dai sicari di Stalin in Spagna nel 1936),
ad esempio, metteva in guardia contro la scorciatoia delle scuole anarchiche,
anch’esse a rischio di dogmatismo quanto quello che si voleva combattere
nelle scuole di stato o clericali. E Luigi Fabbri, pur sostenendo la sperimentazione
di scuole libere, si chiedeva se non era più facile parlare al
popolo nelle neonate scuole pubbliche, ove c’era ancora tanto autoritarismo
e tanto clericalismo da combattere.
Università Popolare-rivista continuò comunque nel suo compito
di sostegno alla pedagogia laica ed antiautoritaria dando voce ai suoi
esponenti come il geografo Emile Reclus, e pedagogisti studiati tutt’oggi
come Enrico Pestalozzi, Maria Montessori, Duclaux. Pubblicava i testi
delle lezioni che si tenevano nelle università popolari ed offriva
articoli di divulgazione scientifica, storica, sociologica, filosofica,
per combattere le superstizioni religiose e l’ignoranza nelle masse
popolari, raccogliendo l’appello ed il plauso di Giosuè Carducci.
Ma al Molinari la laicità non bastava più, l’impostazione
scientifica e non-dogmatica delle lezioni non bastava più, vedeva
attenuarsi il terzo pilastro delle università popolari e cioè
la loro finalizzazione emancipatrice ed organizzatrice del popolo in chiave
libertaria. Nella seconda decade del ‘900, le università
popolari stavano infatti perdendo il contatto ed il rapporto con quel
popolo per cui erano nate, trasformandosi proprio in quelle accademie
che tutti scongiuravano agli inizi del XX secolo.
La preoccupazione del Molinari non era certo scomparsa con lui. Lo sviluppo
della pedagogia libertaria per tutto il XX secolo, attraverso tante e
famose esperienze, sia nelle scuole pubbliche che in scuole libere, ha
sempre dovuto fare i conti con la ricerca di un equilibrio fra laicità,
non-dogmatismo ed antiautoritarismo finalizzato all’educazione di
individui liberi capaci di pensiero critico e di incidere in una società
clericale, dogmatica ed autoritaria per rivoluzionarla in senso libertario.
Ed oggi, che si tratti di minori, adolescenti o adulti, la ricerca di
un docente contemporaneo che condivida un’etica libertaria nella
sua azione pedagogica, non può che andare nella direzione di quelle
forme e situazioni educative coerenti col fine libertario. Negli istituti
scolastici o nelle strade, nei centri sociali o nei progetti di neo- e
ri-alfabetizzazione per adulti, l’azione pedagogica che “libera
la mente” e attenua quel quid di coercitivo che sta proprio dentro
l’educare, può fondarsi solo sulla laicità, sull’attitudine
al non-dogmatismo, sulla prassi antiautoritaria e libertaria nelle relazioni
umane.
Donato Romito (Unicobas-scuola,
Pesaro)
|