è
un piacere e un onore per me parlare qui
a Lucca in occasione dell’inaugurazione del Centro di Documentazione
Interculturale della Scuola per la Pace. Essendo l’ultimo oratore, vorrei
ringraziare Aldo per aver reso questo evento possibile. L’atmosfera di questo
incontro qui a Palazzo Ducale mi sembra la via più appropriata per celebrare
Ivan Illich. E spero che continueremo questa conversazione l’anno prossimo.
Nei
prossimi venti minuti, mi piacerebbe raccontarvi la breve storia di un concerto
multiculturale di dodici musicisti
tenutosi nella mia città nel nord della Germania, Brema.
E
devo questa storia a Illich, perché fu lui a insegnarmi ad ascoltare questo
concerto attraverso le sue orecchie. Me lo fece ascoltare come il suono di un
mondo globalizzato. Un mondo dove non solo l’armonia musicale, ma anche
l’unicità di ciascuna cultura e armonia è obbligata a indebolirsi e ad
appassire sotto il regime della uniformità. Questa storia è una di quelle di
cui Illich direbbe: «Se non è vera, è ben inventata». Ma prima di
cominciare, vorrei presentarvi i protagonisti di questa vicenda. Da una parte
l’armonia musicale e, dall’altra, l’uniformità. E vorrei farlo facendo
riferimento a un vecchio testo di Ivan: The delinking of peace and
development, scritto nel 1982. In quel testo Illich sostiene fermamente che
la pace non può sbocciare se non in un mondo di culture varie e particolari. E
questo è vero anche per la pratica della musica e la riflessione sulla musica.
Da
un paio di anni a questa parte, un gruppo di amici di Illich si incontra intorno
a un tavolo per discutere questa domanda: in che modo e perché, sotto il regime
dell’uniformità, l’esistenza di quella che una volta era chiamata armonia
si indebolisce? Queste conversazioni sono state un dono speciale
perché, lavorando come musicista e musicologo, la nozione di armonia e
la sua storia sono, per me, di cruciale importanza. Come i miei amici, io
percepisco la riflessione intorno a un tavolo come un dono che mi permette di
pensare al di là di una disciplina accademica. Devo a Illich e ai suoi amici se
per me la riflessione sulla musica è diventata una straordinaria opportunità
per la comprensione della più grande perversione della società moderna. Nel
suo discorso di apertura all’Asian Peace Research Association a Yokoama,
Illich insistette su di un argomento: la pace può
sbocciare soltanto in una
società armoniosa, una società in cui ogni cultura ha la propria nozione di
cosa voglia dire vivere in pace.
«La
cultura - scrive Illich - ha sempre dato un significato alla pace. Ogni etnìa,
ogni comunità si identifica, ed è simbolicamente espressa e rinforzata, con il
proprio ethos, miti, leggi e divinità» e, devo aggiungere, musica.
Questa particolare condizione fu storicamente sentita, discussa e chiamata
armonia.
Per
Illich, il nemico della pace è l’uniformità. La guerra, scrive Illich, tende
a rendere le culture simili, mentre l’armonia è quella condizione particolare
sotto la quale ogni cultura fiorisce in un suo modo unico e incomparabile. Sotto
il regime dell’uniformità, una vita pacifica è impossibile. L’uniformità
implica l’idea di un uomo standard, uno standardizzato consumatore di beni
globali. Ora, nell’era dell’omologazione, egli dice, la ricerca di ciò che
è parte della cultura, di ciò che è appropriato per ciascuna cultura è stata
trasposta in una richiesta di uguali possibilità di accesso ai beni limitati.
Secondo Illich, l’uguaglianza, l’assenza di differenze, distrugge la
possibilità di armonia.
Ai
giorni nostri il termine “uniformità” richiama anche un certo numero di
concetti legati a essa. Parole come differenza, bisogni, possibilità,
giustizia, diritti umani, sviluppo e scarsità sono diventati termini chiave sia
per coloro che temono la globalizzazione come per coloro che la auspicano, per
coloro che si battono contro oppure per la globalizzazione. L’uniformità ora
funziona come una specie di parola ombrello che tiene insieme i differenti
aspetti di quello che Illich chiamava l’uomo universale. Oggi, vent’anni
dopo The delinking of peace and development, alla luce del lavoro di
Samar Farage, Silja Samerski, Sajay Samuel e Jean Robert, sono tentato di
aggiungere: lo sganciamento della pace e della salute; lo sganciamento della
pace e dello spazio; lo sganciamento della pace e del prendere decisioni; la
sganciamento, infine, della pace e del valore1.
Ora,
dopo aver chiarito perché le riflessioni di Illich sulla pace e lo sviluppo
sono state cruciali per me, vi racconto la mia storia. Essa
inizia nell’ufficio del direttore del marketing della Siemens a
Brema. Circa due anni fa egli arrivò là insieme al suo responsabile per le
vendite. Ogni anno queste due persone organizzavano un evento speciale:
l’annuncio del rendiconto annuale ai loro dipendenti. Nello stabilimento della
Siemens a Brema più di 2000 persone sono impiegate per produrre parti
elettroniche per il mercato mondiale.
In
questa occasione, tutti i lavoratori della Siemens erano invitati a un piccolo
evento culturale: un concerto seguito da un rinfresco e da champagne offerto a
tutti. L’anno precedente, avevano ingaggiato un quartetto d’archi: Schubert
e un po’ di Mozart erano sembrati in perfetta sintonia con il florido stato
economico della Siemens. Ma quell’anno, la situazione era molto più
complessa. Il business era in calo a causa del mercato mondiale. Giravano
voci che alcune persone sarebbero state sacrificate per consolidare la
situazione. Questo evento aveva la funzione di mostrare che la Siemens, in
quanto attore a livello globale, ora dipendeva totalmente dall’andamento del
mercato mondiale.
I
due manager decisero di enfatizzare esplicitamente la nuova immagine della loro
compagnia, inserita nei giochi della globalizzazione, celebrando la Siemens come
un esempio di una società multiculturale.
Infatti hanno molti immigrati che lavorano per loro, soprattutto occupati
nelle mansioni meno retribuite. La realtà multicultura-
le dei loro impiegati doveva dimostrare che una forza lavoro multiculturale era
appropriata per il mercato globale. Perciò i due manager decisero di ingaggiare
non un quartetto d’archi, ma un gruppo che suonasse musica multiculturale.
Due
mesi più tardi un gruppo di dodici musicisti si incontrò per una prima prova.
Erano stati tutti procurati da un’agenzia per artisti che li aveva messi
insieme soltanto per questo evento speciale. Sotto la leadership di un
musicista americano - vi ho detto che questa storia è fin troppo perfetta per
essere vera - dovevano suonare durante il concerto.
L’agenzia
aveva promesso loro due cose: soldi, di cui tutti avevano certamente bisogno, e
grandi speranze di ottenere l’ingaggio per un altro concerto nella Concert
Hall di Brema, questa volta pagati meglio. Il gruppo era formato da un colorato
assembramento di strani personaggi. C’era un violinista dall’Ungheria, che
studiava alla Accademia Musicale di Brema. Il contrabbasso era venuto
dall’Ucraina per studiare musica a Brema. C’era un chitarrista cileno famoso
in città per la sua bravura. Fu chiamata a cantare una donna francese. C’era
anche un musicista iraniano che suonava un vecchio strumento tradizionale, uno
strumento a corde chiamato canon e un suonatore turco di liuto, che
suonava anche il darabuka, uno strumento turco a percussione. A un
cinese, che tutti i suoi amici chiamavano Ching Chiang, fu chiesto di
rappresentare la cultura asiatica a questo evento: venne con un violino
tradizionale cinese che non aveva niente in comune con il violino dal suono
occidentale suonato dal suo collega ungherese. Un percussionista dal Ghana fu
mandato come rappresentante dell’arte africana della percussione. Un altro
musicista iraniano suonava il dumbalek, un tamburo tradizionale. E
ultimo, ma non meno importante, il leader del gruppo, il musicista americano.
Suonava ugualmente bene ogni tipo di strumento a percussione.
La
musica è sempre stata un’arte radicata in una specifica cultura. La musica è
un’arte che può essere capita soltanto da chi la pratica. Se si vuole sapere
cosa significhi suonare uno strumento, si deve provare a suonarlo per molto
tempo. Ogni etnìa, ogni comunità ha non solo le proprie canzoni e strumenti,
ma anche ritmi e modi che vengono usati in differenti situazioni, il proprio
modo di accordarsi e il modo di ascoltare e apprezzare. Questa varietà dei modi
dell’espressione era consustanziale al senso di armonia. Ogni uomo e donna
doveva imparare cosa era considerato appropriato per uno specifico posto e
momento. Fino al XVIII secolo la musica era inseparabilmente legata a un
determinato luogo. Ogni città aveva il suo diapason, il suo “la”. Quello
dava a ogni posto uno specifico terreno sul quale la musica poteva fiorire.
Ci
fu un radicale cambiamento alla fine del XIX secolo quando un livello standard
internazionale di 440 Hertz fu stabilito da un consesso internazionale di
burocrati. La varietà del “la”, che dava alla musica di ogni località il
suo specifico sapore, doveva sparire per lasciare il posto a uno standard
definito a tavolino. Quando questo gruppo internazionale di musicisti cominciò
a provare, dovette prima accordarsi. Ma la maggior parte di loro, i non europei,
era ancora immersa nell’arte del suono specifico che era quello che proveniva
dal loro paese. E insistevano a essere veri, perché erano chiamati a dimostrare
la varietà di culture a un pubblico multiculturale. Quando, alla fine, smisero
di discutere e cominciarono a suonare, dovettero immediatamente fermarsi perché
il suono che veniva fuori era terribile. Non erano in sintonia, nessuno di loro
suonava insieme con il proprio vicino. Allora, cosa fare? L’unico modo di
risolvere la questione era utilizzare un livello standard, sosteneva il
musicista americano. Soltanto se tutti si fossero adeguati allo standard
mondiale, avrebbero potuto suonare insieme come un gruppo multiculturale di
musicisti.
Potrei
andare avanti e raccontarvi di come ciascun musicista fu costretto a rinunciare
alla propria unicità culturale per il bene di un suono multiculturale della
globalità. I percussionisti, per esempio, non poterono suonare i loro ritmi
tradizionali perché nessuno riusciva a seguirli. Se non si è immersi nel ritmo
di un altro musicista, non si riesce a seguire il suo tempo. Ma per fortuna un
ingegnere tedesco, il signor Mälzel, alla metà del XIX secolo, fece
un’invenzione unica: il metronomo, uno strumento che permette ai musicisti di
seguire, grazie a un tic tac, un certo numero di colpi al minuto. Questo
strumento rappresenta la fine del ritmo, perché uccide lo scorrere della musica
che distingue il suono di un tamburo dal
suono di un altro strumento a percussione.
Da
una parte, il metronomo uccide la musica, ma, dall’altra, permette suoni
globali. Vi potrei anche parlare di cosa succede se musicisti la cui musica è
basata sull’arte dell’improvvisazione e che non conoscono come suonare la
musica scritta, vengono a contatto con musicisti che riescono a seguire soltanto
la musica annotata.
Ma
mi accorgo di essere arrivato alla fine e di dovervi ancora dire cosa avvenne
quando i musicisti andarono sul palco, cosa successe quando una dozzina di
musicisti le cui culture uniche, specifiche erano state alla fine spazzate via
da una serie di misure standard, suonarono insieme.
Il
concerto si tenne in un grande capannone, dove solitamente erano tenuti i
componenti elettronici. Circa un migliaio di dipendenti erano seduti là:
tedeschi, cinesi, africani e altre persone dai più svariati paesi aspettavano
che il grande evento avesse inizio. Dopo che i due manager ebbero parlato delle
grandi, immense opportunità della società multiculturale in un mondo globale,
si accesero le luci sul palco e la musica iniziò. Il risultato fu una gran
confusione, una sorta di cacofonia, una confusione di rumori standardizzati
prodotti da un gruppo di musicisti
universali. Tutte le specificità culturali delle loro pratiche musicali erano
svanite. Obbedendo a uno standard, avevano raggiunto un’omogeneità, ma
l’armonia musicale, l’essenza della pratica musicale, era sparita.
Qui
termina la mia storia. Quella sera la Siemens presentò un modello di società
cresciuto sul concetto dell’uomo universale come lo aveva descritto Illich. I
musicisti si erano trasformati in “suonatori globali”, un insieme di
produttori di suoni uguali che seguivano lo standard globale. Il loro senso
dell’armonia musicale, radicato nelle loro culture, la conoscenza pratica del
fare musica, si erano indeboliti sino a sparire.
Per
me, che sono un musicista che cerca di ascoltare attraverso le orecchie di
Illich, questa storia è piuttosto chiara: soltanto se si slegano musica e
globalizzazione il suono può essere armonioso, la società può avere la pace.