Ascoltare la musica con le orecchie di Ivan Illich

Matthias Rieger

è un piacere e un onore per me parlare qui a Lucca in occasione dell’inaugurazione del Centro di Documentazione Interculturale della Scuola per la Pace. Essendo l’ultimo oratore, vorrei ringraziare Aldo per aver reso questo evento possibile. L’atmosfera di questo incontro qui a Palazzo Ducale mi sembra la via più appropriata per celebrare Ivan Illich. E spero che continueremo questa conversazione l’anno prossimo.

Nei prossimi venti minuti, mi piacerebbe raccontarvi la breve storia di un concerto multiculturale  di dodici musicisti tenutosi nella mia città nel nord della Germania, Brema.

E devo questa storia a Illich, perché fu lui a insegnarmi ad ascoltare questo concerto attraverso le sue orecchie. Me lo fece ascoltare come il suono di un mondo globalizzato. Un mondo dove non solo l’armonia musicale, ma anche l’unicità di ciascuna cultura e armonia è obbligata a indebolirsi e ad appassire sotto il regime della uniformità. Questa storia è una di quelle di cui Illich direbbe: «Se non è vera, è ben inventata». Ma prima di cominciare, vorrei presentarvi i protagonisti di questa vicenda. Da una parte l’armonia musicale e, dall’altra, l’uniformità. E vorrei farlo facendo riferimento a un vecchio testo di Ivan: The delinking of peace and development, scritto nel 1982. In quel testo Illich sostiene fermamente che la pace non può sbocciare se non in un mondo di culture varie e particolari. E questo è vero anche per la pratica della musica e la riflessione sulla musica.

Da un paio di anni a questa parte, un gruppo di amici di Illich si incontra intorno a un tavolo per discutere questa domanda: in che modo e perché, sotto il regime dell’uniformità, l’esistenza di quella che una volta era chiamata armonia si indebolisce? Queste conversazioni sono state un dono speciale  perché, lavorando come musicista e musicologo, la nozione di armonia e la sua storia sono, per me, di cruciale importanza. Come i miei amici, io percepisco la riflessione intorno a un tavolo come un dono che mi permette di pensare al di là di una disciplina accademica. Devo a Illich e ai suoi amici se per me la riflessione sulla musica è diventata una straordinaria opportunità per la comprensione della più grande perversione della società moderna. Nel suo discorso di apertura  all’Asian Peace Research Association a Yokoama, Illich insistette su di un argomento: la pace può  sbocciare  soltanto in una società armoniosa, una società in cui ogni cultura ha la propria nozione di cosa voglia dire vivere in pace.

 «La cultura - scrive Illich - ha sempre dato un significato alla pace. Ogni etnìa, ogni comunità si identifica, ed è simbolicamente espressa e rinforzata, con il proprio ethos, miti, leggi e divinità» e, devo aggiungere, musica. Questa particolare condizione fu storicamente sentita, discussa e chiamata armonia.

Per Illich, il nemico della pace è l’uniformità. La guerra, scrive Illich, tende a rendere le culture simili, mentre l’armonia è quella condizione particolare sotto la quale ogni cultura fiorisce in un suo modo unico e incomparabile. Sotto il regime dell’uniformità, una vita pacifica è impossibile. L’uniformità implica l’idea di un uomo standard, uno standardizzato consumatore di beni globali. Ora, nell’era dell’omologazione, egli dice, la ricerca di ciò che è parte della cultura, di ciò che è appropriato per ciascuna cultura è stata trasposta in una richiesta di uguali possibilità di accesso ai beni limitati. Secondo Illich, l’uguaglianza, l’assenza di differenze, distrugge la possibilità di armonia.

Ai giorni nostri il termine “uniformità” richiama anche un certo numero di concetti legati a essa. Parole come differenza, bisogni, possibilità, giustizia, diritti umani, sviluppo e scarsità sono diventati termini chiave sia per coloro che temono la globalizzazione come per coloro che la auspicano, per coloro che si battono contro oppure per la globalizzazione. L’uniformità ora funziona come una specie di parola ombrello che tiene insieme i differenti aspetti di quello che Illich chiamava l’uomo universale. Oggi, vent’anni dopo The delinking of peace and development, alla luce del lavoro di Samar Farage, Silja Samerski, Sajay Samuel e Jean Robert, sono tentato di aggiungere: lo sganciamento della pace e della salute; lo sganciamento della pace e dello spazio; lo sganciamento della pace e del prendere decisioni; la sganciamento, infine, della pace e del valore1.

Ora, dopo aver chiarito perché le riflessioni di Illich sulla pace e lo sviluppo sono state cruciali per me, vi racconto la mia storia. Essa  inizia nell’ufficio del direttore del marketing della Siemens a Brema. Circa due anni fa egli arrivò là insieme al suo responsabile per le vendite. Ogni anno queste due persone organizzavano un evento speciale: l’annuncio del rendiconto annuale ai loro dipendenti. Nello stabilimento della Siemens a Brema più di 2000 persone sono impiegate per produrre parti elettroniche per il mercato mondiale.

 In questa occasione, tutti i lavoratori della Siemens erano invitati a un piccolo evento culturale: un concerto seguito da un rinfresco e da champagne offerto a tutti. L’anno precedente, avevano ingaggiato un quartetto d’archi: Schubert e un po’ di Mozart erano sembrati in perfetta sintonia con il florido stato economico della Siemens. Ma quell’anno, la situazione era molto più complessa. Il business era in calo a causa del mercato mondiale. Giravano voci che alcune persone sarebbero state sacrificate per consolidare la situazione. Questo evento aveva la funzione di mostrare che la Siemens, in quanto attore a livello globale, ora dipendeva totalmente dall’andamento del mercato mondiale.

I due manager decisero di enfatizzare esplicitamente la nuova immagine della loro compagnia, inserita nei giochi della globalizzazione, celebrando la Siemens come un esempio di una società multiculturale.  Infatti hanno molti immigrati che lavorano per loro, soprattutto occupati nelle mansioni meno retribuite. La realtà multicultura-
le dei loro impiegati doveva dimostrare che una forza lavoro multiculturale era appropriata per il mercato globale. Perciò i due manager decisero di ingaggiare non un quartetto d’archi, ma un gruppo che suonasse musica multiculturale.

Due mesi più tardi un gruppo di dodici musicisti si incontrò per una prima prova. Erano stati tutti procurati da un’agenzia per artisti che li aveva messi insieme soltanto per questo evento speciale. Sotto la leadership di un musicista americano - vi ho detto che questa storia è fin troppo perfetta per essere vera - dovevano suonare durante il concerto.

 L’agenzia aveva promesso loro due cose: soldi, di cui tutti avevano certamente bisogno, e grandi speranze di ottenere l’ingaggio per un altro concerto nella Concert Hall di Brema, questa volta pagati meglio. Il gruppo era formato da un colorato assembramento di strani personaggi. C’era un violinista dall’Ungheria, che studiava alla Accademia Musicale di Brema. Il contrabbasso era venuto dall’Ucraina per studiare musica a Brema. C’era un chitarrista cileno famoso in città per la sua bravura. Fu chiamata a cantare una donna francese. C’era anche un musicista iraniano che suonava un vecchio strumento tradizionale, uno strumento a corde chiamato canon e un suonatore turco di liuto, che suonava anche il darabuka, uno strumento turco a percussione. A un cinese, che tutti i suoi amici chiamavano Ching Chiang, fu chiesto di rappresentare la cultura asiatica a questo evento: venne con un violino tradizionale cinese che non aveva niente in comune con il violino dal suono occidentale suonato dal suo collega ungherese. Un percussionista dal Ghana fu mandato come rappresentante dell’arte africana della percussione. Un altro musicista iraniano suonava il dumbalek, un tamburo tradizionale. E ultimo, ma non meno importante, il leader del gruppo, il musicista americano. Suonava ugualmente bene ogni tipo di strumento a percussione.

La musica è sempre stata un’arte radicata in una specifica cultura. La musica è un’arte che può essere capita soltanto da chi la pratica. Se si vuole sapere cosa significhi suonare uno strumento, si deve provare a suonarlo per molto tempo. Ogni etnìa, ogni comunità ha non solo le proprie canzoni e strumenti, ma anche ritmi e modi che vengono usati in differenti situazioni, il proprio modo di accordarsi e il modo di ascoltare e apprezzare. Questa varietà dei modi dell’espressione era consustanziale al senso di armonia. Ogni uomo e donna doveva imparare cosa era considerato appropriato per uno specifico posto e momento. Fino al XVIII secolo la musica era inseparabilmente legata a un determinato luogo. Ogni città aveva il suo diapason, il suo “la”. Quello dava a ogni posto uno specifico terreno sul quale la musica poteva fiorire.

 Ci fu un radicale cambiamento alla fine del XIX secolo quando un livello standard internazionale di 440 Hertz fu stabilito da un consesso internazionale di burocrati. La varietà del “la”, che dava alla musica di ogni località il suo specifico sapore, doveva sparire per lasciare il posto a uno standard definito a tavolino. Quando questo gruppo internazionale di musicisti cominciò a provare, dovette prima accordarsi. Ma la maggior parte di loro, i non europei, era ancora immersa nell’arte del suono specifico che era quello che proveniva dal loro paese. E insistevano a essere veri, perché erano chiamati a dimostrare la varietà di culture a un pubblico multiculturale. Quando, alla fine, smisero di discutere e cominciarono a suonare, dovettero immediatamente fermarsi perché il suono che veniva fuori era terribile. Non erano in sintonia, nessuno di loro suonava insieme con il proprio vicino. Allora, cosa fare? L’unico modo di risolvere la questione era utilizzare un livello standard, sosteneva il musicista americano. Soltanto se tutti si fossero adeguati allo standard mondiale, avrebbero potuto suonare insieme come un gruppo multiculturale di musicisti.

Potrei andare avanti e raccontarvi di come ciascun musicista fu costretto a rinunciare alla propria unicità culturale per il bene di un suono multiculturale della globalità. I percussionisti, per esempio, non poterono suonare i loro ritmi tradizionali perché nessuno riusciva a seguirli. Se non si è immersi nel ritmo di un altro musicista, non si riesce a seguire il suo tempo. Ma per fortuna un ingegnere tedesco, il signor Mälzel, alla metà del XIX secolo, fece un’invenzione unica: il metronomo, uno strumento che permette ai musicisti di seguire, grazie a un tic tac, un certo numero di colpi al minuto. Questo strumento rappresenta la fine del ritmo, perché uccide lo scorrere della musica che distingue il suono di un tamburo  dal suono di un altro strumento a percussione.

Da una parte, il metronomo uccide la musica, ma, dall’altra, permette suoni globali. Vi potrei anche parlare di cosa succede se musicisti la cui musica è basata sull’arte dell’improvvisazione e che non conoscono come suonare la musica scritta, vengono a contatto con musicisti che riescono a seguire soltanto la musica annotata.

Ma mi accorgo di essere arrivato alla fine e di dovervi ancora dire cosa avvenne quando i musicisti andarono sul palco, cosa successe quando una dozzina di musicisti le cui culture uniche, specifiche erano state alla fine spazzate via da una serie di misure standard, suonarono insieme.

Il concerto si tenne in un grande capannone, dove solitamente erano tenuti i componenti elettronici. Circa un migliaio di dipendenti erano seduti là: tedeschi, cinesi, africani e altre persone dai più svariati paesi aspettavano che il grande evento avesse inizio. Dopo che i due manager ebbero parlato delle grandi, immense opportunità della società multiculturale in un mondo globale, si accesero le luci sul palco e la musica iniziò. Il risultato fu una gran confusione, una sorta di cacofonia, una confusione di rumori standardizzati prodotti da un  gruppo di musicisti universali. Tutte le specificità culturali delle loro pratiche musicali erano svanite. Obbedendo a uno standard, avevano raggiunto un’omogeneità, ma l’armonia musicale, l’essenza della pratica musicale, era sparita.

Qui termina la mia storia. Quella sera la Siemens presentò un modello di società cresciuto sul concetto dell’uomo universale come lo aveva descritto Illich. I musicisti si erano trasformati in “suonatori globali”, un insieme di produttori di suoni uguali che seguivano lo standard globale. Il loro senso dell’armonia musicale, radicato nelle loro culture, la conoscenza pratica del fare musica, si erano indeboliti sino a sparire.

Per me, che sono un musicista che cerca di ascoltare attraverso le orecchie di Illich, questa storia è piuttosto chiara: soltanto se si slegano musica e globalizzazione il suono può essere armonioso, la società può avere la pace.