Premessa
La
prima stesura di questo saggio apparve su “ Le Monde ” all'inizio del 1973.
Nell'accettarne il testo il venerando direttore del giornale suggerì, mentre
pranzavamo insieme a Parigi, un unico cambiamento: gli pareva che un'espressione
tecnica poco nota come “ crisi energetica ” fosse fuori luogo nella frase
iniziale d'un articolo ch'egli intendeva stampare in prima pagina. Riguardando
ora il saggio, mi colpisce la rapidità con cui in appena cinque anni sono
cambiati il linguaggio e i temi; ma altrettanto mi colpisce il lento e però
costante aumento di coloro che si schierano in favore dell'alternativa radicale
alla società industriale, cioè per la modernità conviviale a basso consumo
di energia.
In
questo saggio io sostengo che, in determinate circostanze, una tecnologia
incorpora a tal punto i valori della società per la quale fu inventata, che
questi valori finiscono col dominare in ogni società che poi applichi la
medesima tecnologia. La struttura materiale dei mezzi di produzione può dunque
incorporare irrimediabilmente un pregiudizio di classe. La tecnologia ad alto
contenuto di energia, almeno nella sua applicazione al traffico, ne è un chiaro
esempio.
Ovviamente,
si tratta di una tesi che mina la legittimità di quei professionisti che
monopolizzano l'esercizio di tali tecnologie. Essa riesce particolarmente
sgradita a coloro che, all'interno delle professioni, cercano di servire la collettività
usando la fraseologia della lotta di classe col proposito di sostituire ai “
capitalisti ”, che ora governano la politica delle istituzioni, professionisti
o anche profani ma che accettino i criteri di giudizio professionali. Principalmente
per influenza di questi professionisti “ radicali ”la mia tesi, dapprima
accolta come una stranezza, in appena cinque anni è diventata un'eresia che
attira un bombardamento di ingiurie.
La distinzione che qui viene avanzata non è tuttavia una novità. Io contrappongo degli strumenti che si possono usare per generare valori d'uso ad altri che non sono invece utilizzabili se non per produrre valori di scambio, merci. Ultimamente questa distinzione è stata rimessa in evidenza da una grande varietà di studiosi; di fatto, l'insistenza sulla necessità di un equilibrio tra strumenti conviviali e strumenti industriali è l'elemento comune che caratterizza un'emergente concordanza tra i gruppi impegnati su posizioni politiche radicali. Una magnifica guida bibliografica su questo argomento è stata pubblicata nel volume Radicai Technology (Londra e New York 1976) dai redattori di “ Undercurrents ”. Valentino Borremans ha redatto, ad uso dei bibliotecari, una guida alle pubblicazioni esistenti sugli strumenti moderni orientati verso la produzione di valori d'uso (Guide to convivial tools, vol. 130 della serie Special Reports del “ Library Journal ”, Bowker Company, New York 1979). La tesi specifica sulle soglie di energia socialmente critiche nel campo del trasporto da me esposta in questo saggio, è stata sviluppata e documentata dai colleghi Jean-Pierre Dupuy e Jean Robert in due libri che hanno scritto assieme: La trahison de l'opulence (Parigi 1976) e Les chronophages (Parigi 1978).
Da
qualche tempo è venuto di moda parlare di un'imminente crisi energetica.
Questo eufemismo occulta una contraddizione e consacra un'illusione. Maschera
la contraddizione che è implicita nel perseguire assieme l'equità e lo
sviluppo industriale; fa salva l'illusione che la potenza della macchina possa
sostituire indefinitamente il lavoro dell'uomo. Per superare la contraddizione e
dissolvere l'illusione, è urgente chiarire quella realtà che viene oscurata
dal linguaggio della crisi: e la realtà è che elevati quanta di energia
degradano le relazioni sociali con la stessa ineluttabilità con cui distruggono
l'ambiente fisico.
Coloro
che parlano di crisi energetica credono in una particolare idea dell'uomo e
continuano a propagarla. Secondo questa concezione l'uomo nasce, e resta per
tutta la vita, dipendente da schiavi che deve faticosamente imparare a
dominare. Se non dispone di prigionieri, ha bisogno di macchine che compiano
gran parte del suo lavoro. Si può misurare il benessere d'una società, secondo
tale dottrina, dal numero degli anni che i suoi membri hanno trascorso a scuola
e dal numero degli schiavi energetici che hanno così imparato a governare.
Questa convinzione è comune a tutte le contrastanti ideologie economiche attualmente
in voga. E’ messa in pericolo dalle evidenti iniquità, molestie e impotenze
che si manifestano ovunque quando le orde voraci degli schiavi energetici
superano oltre un certo rapporto il numero delle persone. La crisi energetica
concentra le preoccupazioni sulla scarsità del foraggio disponibile per questi
schiavi. Io preferisco chiedermi se gli uomini liberi hanno bisogno di essi.
Gli
indirizzi di politica energetica che verranno adottati nel decennio in corso
determineranno la portata e il carattere delle relazioni sociali che una
società potrà avere nell'anno 2000. Una politica di bassi consumi di energia
permette
un'ampia scelta di stili di vita e di culture. Se invece una società opta per
un elevato consumo di energia, le sue relazioni sociali non potranno che
essere determinate dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano
etichettate, capitaliste o socialiste.
In
questo momento le società, specie quelle povere, sono per lo più ancora libere
di seguire nel campo dell'energia uno di questi tre indirizzi: possono
identificare il benessere con un forte consumo energetico pro capite, o con il
conseguimento di un'elevata efficienza nella trasformazione dell'energia,
oppure ancora con il minor uso possibile di energia meccanica da parte dei
membri più potenti della società. Il primo orientamento punterebbe su una
gestione rigida di combustibili rari e distruttivi a vantaggio dell'industria,
mentre il secondo metterebbe l'accento su una riattrezzatura dell'apparato
industriale nell'interesse del risparmio termodinamico. Questi due primi
atteggiamenti comportano ingenti investimenti pubblici e un accentuato controllo
sociale; entrambi giustificano 1'avvento di un Leviatano computerizzato, e
sono oggi contestati da più parti.
La
possibilità di una terza scelta è percepita da ben pochi. Mentre si è
cominciato ad accettare, come condizione per sopravvivere fisicamente, qualche
limitazione ecologica al consumo energetico massimo pro capite, non si arriva
ancora a vedere nell'impiego del minimo possibile di potenza il fondamento di
una varietà di ordinamenti sociali che sarebbero tutti moderni quanto
desiderabili. E tuttavia solo stabilendo un tetto all'uso di energia si possono
ottenere rapporti sociali che siano contraddistinti da alti livelli di equità
L'unica scelta attualmente trascurata è la sola che sia alla portata di ogni
nazione. E’ pure la sola strategia che permetta di usare una procedura
politica per porre limiti al potere anche del più motorizzato dei burocrati. La
democrazia partecipativa postula una tecnologia a basso livello energetico; e
solo la democrazia partecipativa crea le condizioni per una tecnologia
razionale.
Ciò
che in genere si perde' di vista è che l'equità e l'energia possono crescere
parallelamente solo sino a un certo punto. Al di sotto di una certa soglia di
watt pro capite, i motori forniscono condizioni migliori per il progresso
sociale. Al di sopra di quella soglia, l'energia cresce a spese dell'equità.
Ogni sovrappiù di energia significa allora un restringimento del controllo
sull'energia stessa.
La
diffusa convinzione che un'energia pulita e abbondante sarebbe la panacea di
tutti i mali sociali è dovuta a un inganno politico, secondo cui l'equità e il
consumo d'energia possono stare in correlazione all'infinito, almeno in certe
condizioni politiche ideali. Vittime di questa illusione, tendiamo a ignorare
qualunque limite sociale della crescita del consumo energetico. Ma se hanno
ragione gli ecologi ad affermare che la potenza non metabolica è inquinante,
è di fatto altrettanto inevitabile che, al di là d'una certa soglia, la
potenza meccanica produca guasti. La soglia oltre la quale comincia la
disgregazione sociale indotta da alti quanta di energia non coincide con
quella dove la trasformazione dell'energia comincia a produrre distruzione
fisica; espressa in cavalli-vapore, è sicuramente più bassa.. E’questo il
fatto che va riconosciuto in via teorica perché si possa affrontare sul piano
politico il problema del wattaggio pro capite che la società deve porre come
limite ai propri membri.
Anche
ammettendo che una potenza non inquinante sia ottenibile e in abbondanza, resta
il fatto che l'impiego di energia su scala di massa agisce sulla società al
pari di una droga fisicamente innocua ma assoggettante per la psiche. Una
collettività può scegliere tra il Metadone e la disintossicazione, tra il
restare dipendente da un'energia estranea e il liberarsene con spasmi dolorosi:
ma nessuna può avere una popolazione che sia incatenata a un sempre maggior
numero di schiavi energetici e che nello stesso tempo sia fatta di individui
autonomamente attivi.
In
altri scritti ho mostrato come, al di là d'un certo livello di PNL pro
capite, il costo del controllo sociale non possa che aumentare più in fretta
del prodotto globale, diventando la principale attività istituzionale
all'interno di una economia. La terapia somministrata dagli educatori, dagli
psichiatri e dagli assistenti sociali non può che convergere verso i medesimi
obiettivi dei pianificatori, dei managers e dei venditori, e divenire
complementare ai servizi degli organi di sicurezza, delle forze armate e della
polizia. Qui vorrei ora indicare uno dei motivi per cui l'aumento della
ricchezza impone un più accentuato controllo sociale. Sostengo che, al di là
di una certa mediana del livello di
energia pro capite, il sistema politico e il contesto culturale di una società
non possono che degradarsi. Una volta oltrepassato il quantum critico
di energia pro capite, è ineluttabile che le garanzie giuridiche dell'iniziativa
personale e concreta vengano soppiantate dall'educazione agli astratti
obiettivi di una burocrazia. Questo quantum segna il limite dell'ordine
sociale.
Intendo
qui sostenere che la tecnocrazia prevale necessariamente non appena il
rapporto tra potenza meccanica ed energia metabolica oltrepassa una soglia
precisa e riconoscibile. L'ordine di grandezza entro cui si trova questa
soglia è in buona parte indipendente dal livello della tecnologia applicata;
tuttavia, nei paesi ricchi e in quelli medio-ricchi, la sua stessa esistenza è
finita nel punto cieco dell'immaginazione sociale. Tanto gli Stati Uniti quanto
il Messico hanno superato questa linea di demarcazione; in entrambi i paesi, ad
ogni nuova aggiunta di energia si aggravano l'ineguaglianza, l'inefficienza e
l'impotenza delle persone. Benché un paese abbia un reddito pro capite di soli
500 dollari e l'altro di oltre 5000, gli enormi interessi costituiti
dell’infrastruttura industriale spingono entrambi ad accrescere sempre più il
consumo di energia. Una conseguenza è che sia gli ideologi statunitensi sia
quelli messicani chiamano “ crisi energetica ” la loro frustrazione, ed
entrambi i paesi non riescono a vedere che la minaccia di collasso sociale non
deriva né da carenza di combustibile né dal modo dilapidatorio, inquinante e
irrazionale con cui viene impiegata la potenza disponibile, bensì dal continuo
sforzo dell'industria rivolto a ingozzare la società con quantitativi di
energia che inevitabilmente degradano, depauperano e frustrano la maggioranza
della gente.
Un
popolo può essere altrettanto pericolosamente ipernutrito dalla potenza dei
propri strumenti quanto dal contenuto calorico dei propri cibi, ma è assai più
difficile riconoscere un debole nazionale per i watt che non per una dieta
malsana. Il wattaggio pro capite che segna il punto critico per il benessere
sociale sta entro un ordine di grandezza che è assai superiore alla quantità
di cavalli-vapore nota ai quattro quinti dell'umanità e assai inferiore alla
potenza controllata da chi guidi una Volkswagen. Non se ne rende conto né il
sottoconsumatore né il sovraconsumatore. Né l'uno né l'altro è disposto a
guardare in faccia la realtà Per quanto riguarda il primitivo, l'eliminazione
della schiavitù e della fatica più ingrata dipende dall'introduzione di
un'adeguata tecnologia moderna, mentre quanto al ricco l'evitare una
degradazione ancor più spaventosa dipende dall'efficace riconoscimento di una
soglia nel consumo energetico oltre la quale i processi tecnici cominciano a
determinare le relazioni sociali. Sia dal punto di vista biologico sia da quello
sociale, le calorie sono benefiche solo fin quando rimangono entro lo stretto
margine che separa l'abbastanza dal troppo.
La
cosiddetta crisi energetica è dunque un concetto politicamente ambiguo.
L'interesse pubblico ai quanta di energia e alla distribuzione del
controllo sul loro impiego può portare in due direzioni opposte. Da una parte
si possono porre domande suscettibili di aprire la via a una ricostruzione
politica sbloccando la ricerca di un'economia post-industriale ad alta intensità
di lavoro, a basso contenuto di energia e ad alto grado di equità. Dall'altra
parte l'isterico affanno per l'alimentazione delle macchine può dare un
ulteriore impulso all'attuale sviluppo istituzionale a forte intensità di
capitale e portarci al di là dell'ultima curva che ci separa da un Armageddon
iperindustriale. La ricostruzione politica presuppone il riconoscimento del
fatto che esistono dei quanta pro capite critici, superati i quali
l'energia non è più controllabile per via politica. Dall'altro canto, le
restrizioni ecologiche al consumo energetico globale imposte da
pianificatori di mentalità industriale inclini a mantenere la produzione
delle industrie a un ipotetico livello massimo non potrebbero che sfociare
nell'imposizione d'una gigantesca camicia di forza all'intera società.
I
paesi ricchi come gli Stati Uniti, il Giappone o la Francia potranno forse non
arrivare mai al punto di soffocare tra i propri rifiuti, ma solo perché già
prima queste società saranno sprofondate in un coma dell'energia socioculturale.
Paesi come l'India, la Birmania e, almeno ancora per qualche tempo, la Cina
hanno invece tuttora una potenza muscolare sufficiente a prevenire un infarto
energetico; sarebbero in condizione di scegliere, adesso, di rimanere entro quei
limiti ai quali i ricchi saranno costretti a tornare passando per la perdita
completa delle loro libertà.
Scegliere
un'economia a contenuto minimo di energia costringe il povero a rinunciare alle
attese fantastiche e il ricco a riconoscere nei propri interessi costituiti una
passività tremenda. Entrambi devono rifiutare l'immagine funesta dell'uomo come
schiavista, attualmente promossa da una fame di maggiori risorse energetiche che
è stimolata da motivi ideologici. Nei paesi giunti all'opulenza grazie allo
sviluppo industriale, la crisi energetica serve da pretesto per aumentare il
prelievo fiscale necessario per sostituire nuovi procedimenti industriali, più
“ razionali ”e socialmente ancor più micidiali, a quelli resi obsoleti da
una superespansione inefficiente. Per i dirigenti dei popoli non ancora
dominati dal medesimo processo di industrializzazione, la crisi energetica
rappresenta un imperativo storico che ordina di accentrare la
produzione, l'inquinamento e il loro controllo, in un estremo tentativo di
raggiungere le nazioni più potenti. Esportando la loro crisi e predicando il
nuovo verbo del culto puritano dell'energia, i ricchi arrecano ai poveri
ancora più danno di quanto ne arrecassero vendendogli i prodotti delle loro
vecchie fabbriche. Nel momento in cui un paese povero sposa l'idea che una
maggiore quantità di energia più attentamente gestita darà sempre come
risultato un maggior volume di beni per più persone, quel paese si chiude
nella gabbia dell'asservimento al massimo sviluppo del prodotto industriale.
E’ inevitabile che i poveri perdano la possibilità di optare per una
tecnologia razionale una volta deciso di modernizzare la loro povertà
accrescendo la propria dipendenza dall'energia. Inevitabilmente i poveri si
precludono qualunque tecnologia liberatrice e qualunque politica partecipativa
allorché, insieme al massimo possibile di impieghi energetici, accettano e non
possono non accettare il massimo possibile di controllo sociale.
La
crisi energetica non si può superare con un sovrappiù di energia. Si può
soltanto dissolverla, insieme con l'illusione che fa dipendere il benessere dal
numero di schiavi energetici che un uomo ha sotto di sé. A questo scopo, è
necessario identificare le soglie al di là delle quali l'energia produce
guasti, e farlo attraverso un processo politico che impegni tutta la comunità
nella ricerca di tali limiti. Poiché questo tipo di ricerca va in senso
opposto
a quella che viene svolta oggi dagli esperti e per conto delle istituzioni, io
continuerò a chiamarla contro-ricerca. Essa si compone di tre fasi: in primo
luogo bisogna riconoscere sul piano teorico come imperativo sociale la
necessità di porre dei limiti al consumo di energia pro capite; quindi bisogna
individuare la fascia entro la quale potrebbe trovarsi la grandezza critica;
infine bisogna che ciascuna comunità metta in luce la somma di iniquità,
di fastidio e di condizionamento che i suoi membri sono portati a tollerare per
avere la soddisfazione di idolatrare potenti congegni e prender parte ai
relativi riti diretti dai professionisti che ne regolano il funzionamento.
La
necessità di una ricerca politica sui quanta di energia socialmente
ottimali è illustrabile in maniera chiara e succinta esaminando il traffico
moderno. Gli Stati Uniti investono nei veicoli tra il 25 e il 45 per cento (a
seconda dei criteri di calcolo) di tutta l'energia di cui dispongono: per
fabbricarli, per farli muovere e per assicurare loro un diritto di passaggio
quando scorrono, quando volano e quando sono lasciati in sosta. La maggior parte
di questa energia serve a spostare persone immobilizzate con delle cinghie. Al
solo scopo di trasportare gente, 250 milioni di americani destinano più
combustibile di quanto ne impiegano 1,3 miliardi di cinesi e di indiani per
tutti i loro scopi. Quasi tutto questo combustibile viene bruciato per la danza
della pioggia di un'accelerazione dissipatrice di tempo. I paesi poveri spendono
meno energia pro capite, ma la percentuale dell'energia assorbita dal traffico
in Messico o in Perù è probabilmente superiore a quella degli Stati Uniti, e
ne beneficia una fetta più piccola della popolazione. Le dimensioni di questa
faccenda permettono di dimostrare in maniera tanto facile quanto significativa,
attraverso l'esempio della mobilità personale, come esistano dei quanta di
energia socialmente critici.
Nella
circolazione, l'energia impiegata in una determinata unità di tempo (potenza)
si traduce in velocità. In questo caso, il quantum critico si configurerà
come limite della velocità. Ovunque sia stato oltrepassato questo limite, è
emerso il disegno essenziale della degradazione sociale dovuta a elevati quanta
di energia. Ogni volta che un mezzo pubblico ha superato i 25 chilometri
orari, è diminuita l'equità mentre aumentava la penuria sia di tempo che di
spazio. Il trasporto a motore ha monopolizzato il traffico, bloccando il
movimento alimentato dall'energia corporea (che chiamerò “ transito ”).In
tutti i paesi occidentali, nel giro di cinquant'anni dall'inaugurazione della
prima ferrovia, il numero dei chilometri/passeggero coperti con tutti i mezzi
di trasporto si è moltiplicato per cento. Quando il rapporto tra le
rispettive erogazioni di potenza ha oltrepassato un certo valore, i trasformatori
meccanici di combustibili minerali hanno tolto alla gente la possibilità di
usare la propria energia metabolica, costringendola a diventare consumatrice
forzata di mezzi di trasporto. A questo effetto esercitato dalla velocità
sull'autonomia degli individui, contribuiscono solo marginalmente le
caratteristiche tecniche dei veicoli a motore oppure le persone o gli enti che
di fronte alla legge risultano responsabili delle aviolinee, delle ferrovie,
degli autobus o delle automobili: è l'alta velocità il fattore critico che
rende socialmente distruttivo il trasporto. Una vera scelta tra indirizzi
pratici e di relazioni sociali desiderabili è possibile solo laddove la velocità
sia sottoposta a restrizioni. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia
a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada
che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta[1].
[1]
Parlo del
traffico al fine di illustrare il più generale tema dell’impiego socialmente
ottimale dell’energia, e mi limito alla locomozione delle persone, comprendendo
i loro bagagli personali e il combustibile, i materiali e le attrezzature
occorrenti per il veicolo e per la strada. Mi astengo volutamente dal
considerare altri due tipi di traffico: quello delle merci e quello dei
messaggi. Per entrambi si potrebbe fare un discorso analogo, che però
esigerebbe un’argomentazione diversa, sicché la lascio da parte per
un’altra occasione. (Questa nota figurava nella prima edizione del
presente saggio: In quel periodo stavo preparando due studi che dovevano
integrarlo: uno sulla storia del servizio postale, l’altro su equipaggi e
carichi nella storia. Rinunciai a tutti e due i progetti per scrivere Nemesi
medica.)