L'inefficacia dell'accelerazione
Non
bisogna perdere di vista il fatto che le velocità di punta accessibili a pochi
vengono pagate a un prezzo ben diverso da quello delle velocità elevate
accessibili a tutti. La classificazione sociale basata sui livelli di velocità
impone un trasferimento netto di potere: i poveri lavorano e pagano per
restare indietro. Ma se le classi medie di una società velocistica possono
anche far finta di non vedere questa discriminazione, non dovrebbero però
ignorare le crescenti disutilità marginali del trasporto e la loro stessa
perdita di tempo libero. Le grandi velocità per tutti comportano che ognuno
abbia sempre meno tempo per sé man mano che l'intera società dedica allo
spostamento della gente una quota sempre più grossa della propria disponibilità
di tempo. I veicoli che corrono a una velocità superiore a quella critica non
soltanto tendono a imporre ineguaglianza, ma inevitabilmente creano anche
un'industria al servizio di se stessa, che nasconde un sistema di locomozione
inefficiente sotto una maschera di raffinatezza tecnologica. Io intendo
dimostrare che porre un limite alla velocità non è solo necessario per
salvaguardare l'equità: è altresì una condizione per accrescere la distanza
globale percorsa entro una società diminuendo contemporaneamente il tempo
complessivo che il trasporto richiede.
Non
si sa molto circa l'impatto dei veicoli sul monte-ore di cui dispongono
quotidianamente gli individui e le società[1].
Da studi dedicati ai trasporti si ricavano dati statistici sul costo
tempo/chilometro, ovvero sul valore del tempo espresso in dollari o in lunghezza
dei tragitti. Ma statistiche di questo tipo non ci dicono niente riguardo ai
costi occulti del trasporto: i frammenti di esistenza rosicchiati dal traffico,
lo spazio divorato dai veicoli, la moltiplicazione di spostamenti resa
necessaria dalla presenza dei veicoli, il tempo che va perso, direttamente o
indirettamente, nel prepararsi alla locomozione. Manca inoltre una valutazione
di certi costi ancor più reconditi, quali i fitti relativamente più alti che
si pagano per risiedere in zone vicine alle correnti di traffico, o le spese
in più che si sopportano per difendere queste zone dal rumore,
dall'inquinamento e dai rischi per l'incolumità personale che hanno origine
nei veicoli. La mancanza di una contabilità del tempo sociale non deve però
farci credere che tale conto sia impossibile, e neanche deve impedirci di trarre
conclusioni da quel poco che sappiamo.
Dalle
limitate informazioni che abbiamo potuto mettere insieme risulta che in ogni
parte del mondo, non appena la velocità di certi veicoli ha superato la
barriera dei 25 chilometri orari, ha cominciato ad aggravarsi la penuria di
tempo legata al traffico. Una volta che l'industria ha raggiunto questa soglia
critica di produzione pro capite, il trasporto ha fatto dell'uomo il fantasma
che conosciamo: un assente che giorno dopo giorno si sforza di raggiungere una
destinazione che gli è inaccessibile con i soli suoi mezzi fisici. Oggi la
gente dedica una parte cospicua della propria giornata lavorativa a guadagnarsi
il denaro senza il quale non potrebbe neanche recarsi sul lavoro. Il tempo che
una società spende per il trasporto aumenta in misura direttamente
proporzionale alla velocità dei mezzi pubblici più rapidi. Il Giappone
supera ormai gli Stati Uniti in tutti e due i campi. Il tempo di vita si riempie
di attività generate dal traffico non appena i veicoli abbattono la barriera
che protegge la gente dalla dislocazione e lo spazio dalla distorsione.
Che poi il veicolo che sfreccia sulla superstrada appartenga allo Stato o a un privato non fa grande differenza: comunque ogni ulteriore aumento di velocità significa un'altra frazione di tempo libero che va perduta e un sovrappiù di programmazione che si deve subire. Gli autobus consumano un terzo del carburante che le automobili bruciano per portare una sola persona per un dato tratto; le ferrovie suburbane sono fino a dieci volte più efficienti delle auto. Autobus e treni potrebbero diventare ancora più efficienti e meno inquinanti; là dove appartengono alla collettività e sono amministrati razionalmente, offrono in genere un servizio, quanto a orari e percorsi, che riduce considerevolmente le sperequazioni create dalla gestione privata o incompetente del trasporto. Ma fin quando un qualunque sistema di trasporto s'imporrà alla gente in forza di velocità di punta sottratte a ogni regolamentazione politica, alla collettività non resterà altra scelta fuorché spendere più tempo per pagare a più persone la possibilità d'essere portate da una stazione all'altra, o pagare meno tasse sicché ancor meno persone possano spostarsi in molto meno tempo su distanze molto maggiori di quanto non sia consentito alla maggioranza. L'ordine di grandezza della velocità di punta ammessa in un sistema di trasporto determina la quota del tempo sociale che l'intera collettività spende per il traffico.
Il monopolio radicale dell'industria
Per
discutere fruttuosamente quale tetto sarebbe opportuno fissare alla velocità di
spostamento, conviene ritornare sulla distinzione già fatta fra transito autoalimentato
e trasporto motorizzato, e confrontare il contributo di ciascuno di
questi componenti al totale della circolazione, che ho chiamato traffico.
Il
termine “ trasporto ” sta a indicare il modo di circolazione basato su un
impiego intensivo di capitale, “ transito ” quello fondato su un'alta
intensità di lavoro.
Il
trasporto è il prodotto di un'industria, i cui clienti sono i passeggeri. E’
una merce industriale, e quindi scarsa per definizione. Il miglioramento del
trasporto avviene sempre in condizioni di scarsità, che si accentuano man mano
che aumenta la velocità - e quindi il costo - del servizio. Il conflitto che
nasce dall'insufficienza di trasporto tende a configurarsi come un gioco a somma
zero, dove si vince solo ciò che un altro perde. Al più, tale conflitto
ammette quella che è la soluzione ottimale nel “ dilemma del prigioniero
”: collaborando col carceriere, entrambi i prigionieri se la cavano con un
minor tempo da passare in cella.
Il
transito non è invece il prodotto di un'industria, ma l'azione indipendente dei
transienti. Ha per definizione un valore d'uso, ma non necessariamente un valore
di scambio. E’ una capacità innata nell'uomo e distribuita in misura più
o meno uguale fra tutte le persone sane della stessa età. L'esercizio di tale
capacità può subire restrizioni quando si privano certe categorie di persone
della facoltà di prendere una strada diretta, o anche perché una popolazione
manca di scarpe o di selciati. Il conflitto che nasce in presenza di condizioni
di transito insoddisfacenti tende perciò a configurarsi come un gioco a somma
non zero, alla fine del quale tutti guadagnano: non solo quelli che ottengono il
diritto di attraversare una proprietà precedentemente cintata, ma anche
quelli che abitano lungo la strada.
L'insieme
del traffico è la somma di due modi di produzione profondamente diversi.
Questi si possono rafforzare l'un l'altro armoniosamente solo nella misura in
cui gli apporti autonomi vengano protetti dal prevaricare del prodotto
industriale.
I
danni causati dal traffico odierno sono dovuti al monopolio del trasporto. Il
fascino della velocità ha ingannevolmente persuaso il passeggero ad accettare
le promesse di un'industria che produce traffico ad alta intensità di capitale.
Il passeggero è convinto che siano stati i veicoli ad alta velocità a farlo
progredire oltre la limitata autonomia di cui godeva quando si spostava
utilizzando la forza propria; ha quindi lasciato che il trasporto programmato
prevalesse sull'altro modo di circolazione, il transito ad alta intensità di
lavoro. Tra le conseguenze di questa concessione, la distruzione dell'ambiente
fisico è quella meno deleteria; i risultati di gran lunga più amari sono le
frustrazioni psichiche che si moltiplicano, le disutilità crescenti generate
dall'incessante produzione, e l'iniquo trasferimento di potere che si deve
subire: fenomeni che manifestano tutti una relazione distorta tra tempo e
spazio. Il passeggero che consente a vivere in un mondo monopolizzato dal
trasporto diventa un angosciato e forzato consumatore di distanze delle quali
non può più decidere né la forma né la lunghezza.
Ogni
società che imponga l'obbligo della velocità schiaccia il transito a
vantaggio del trasporto. Ovunque si precludano non solo i privilegi ma anche
le necessità elementari a chi non usi mezzi di trasporto ad alta velocità,
si determina un accelerazione involontaria dei ritmi personali. L'industria
diventa padrona del traffico quando la vita quotidiana viene a dipendere da
spostamenti motorizzati.
Questo
profondo dominio esercitato dall'industria del trasporto sulla mobilità
naturale è una forma di monopolio assai più pesante sia del monopolio
commerciale che una Fiat possa instaurare sul mercato dell'automobile, sia del
monopolio politico che l'industria automobilistica possa assicurarsi a scapito
delle ferrovie e delle autolinee. Considerando la sua natura occulta, il suo
profondo radicamento e il suo potere di strutturare la società, io lo definisco
un monopolio radicale. Un'industria esercita questo tipo di monopolio
quando diventa il mezzo dominante per soddisfare bisogni che in precedenza
davano luogo a una risposta personale. Il consumo obbligato di un bene di
scambio ad alta potenza (il trasporto motorizzato) riduce la possibilità di
godimento di un valore d'uso abbondante (l'innata capacità di transito). Il
traffico offre qui l'esempio di una legge economica generale: qualunque
prodotto industriale venga consumato in quantitativi pro capite eccedenti una
data intensità, esercita una monopolio radicale sulla soddisfazione di un
bisogno. Oltre un certo punto, la scolarizzazione obbligatoria distrugge
l'ambiente adatto all'apprendimento, i sistemi di assistenza medica inaridiscono
le fonti di salute non terapeutiche, il trasporto strozza il traffico.
Si
comincia a istituire un monopolio radicale riordinando la società
nell'interesse di coloro che consumano i quantitativi maggiori; quindi lo si
impone costringendo tutti a consumare almeno la dose minima in cui il bene in
questione viene prodotto. Il consumo obbligatorio assumerà un aspetto nei
settori industriali dove domina l'informazione, quali l'istruzione o la
medicina; e un aspetto diverso in quei settori dove i quantitativi si possono misurare
in unità termiche, come la costruzione degli alloggi, l'abbigliamento o il
trasporto. La confezione industriale dei valori raggiungerà un'intensità
critica in punti diversi a seconda delle diverse produzioni, ma per ogni grande
classe di prodotti la soglia sta in un ordine di grandezza che è identificabile
per via teorica. Il fatto che sia possibile determinare teoricamente l'arco di
velocità entro cui il trasporto instaura un monopolio radicale sul traffico,
non significa che si possa determinare per via teorica fino a che punto questo
monopolio sia sopportabile da una data società. Il fatto che sia possibile
identificare un livello d'istruzione obbligatoria arrivati al quale declina la
capacità d'apprendere vedendo e facendo, non permette al teorico di
identificare gli specifici limiti pedagogici alla divisione del lavoro
sopportabili da una cultura. Solo attraverso il processo giuridico e,
soprattutto, politico si potrà pervenire a misure specifiche, anche se
provvisorie, con cui la velocità o l'istruzione obbligatoria saranno concretamente
sottoposte a limiti in una data società. L'ordine di grandezza dei limiti
volontari è una questione politica; l'usurpazione del monopolio radicale può
essere messa in evidenza dall'analisi sociale.
Un'industria
non impone un monopolio radicale a tutta una società per la semplice scarsità
dei beni che produce o perché elimina dal mercato la concorrenza, bensì grazie
alla capacità che possiede di creare e plasmare un bisogno che essa soltanto è
in grado di soddisfare.
In
tutta l'America Latina le scarpe sono rare, e molti non le portano mai:
camminano a piedi nudi o calzano il più vasto assortimento di ottimi sandali
che esista al mondo, forniti da una varietà di artigiani, e la mancanza di
scarpe non ha mai limitato in alcun modo i loro spostamenti. Ma in alcuni
paesi latinoamericani la gente è stata costretta a portarle da quando chi va a
piedi nudi non è ammesso a scuola, al lavoro e nei servizi pubblici: per gli
insegnanti e per i funzionari di partito, non portare scarpe equivale a
mostrare indifferenza per il “ progresso ”. Senza che ci sia stato alcun
accordo intenzionale tra i promotori dello sviluppo nazionale e l'industria calzaturiera,
in questi paesi gli scalzi sono ora esclusi da qualunque posto pubblico.
Come
le scarpe, le scuole sono state rare in ogni tempo. Ma non è mai stata l'esigua
minoranza privilegiata degli scolari a fare della scuola un impedimento
all'acquisto del sapere. Solo quando delle leggi hanno reso le scuole
obbligatorie non meno che gratuite, l'educatore ha conquistato il potere di
negare possibilità d'istruzione sul lavoro al sottoconsumatore di terapie
scolastiche. Solo quando la frequenza scolastica è diventata obbligatoria si
è potuto imporre a tutti un ambiente artificiale sempre più
complesso che non lascia posto a chi non sia scolarizzato e inserito in un
programma.
Gli
elementi che contengono in potenza un monopolio radicale appaiono chiarissimi
nel caso del traffico. Immaginiamo che cosa accadrebbe se l'industria del
trasporto potesse in qualche modo distribuire più adeguatamente il suo
prodotto: un utopico sistema di trasporto rapido e gratuito per tutti
porterebbe inevitabilmente a un'ulteriore espansione del dominio del traffico
sulla vita umana. Come si configurerebbe questa utopia? Il traffico sarebbe organizzato
esclusivamente in funzione dei mezzi di trasporto pubblici; verrebbe finanziato
mediante un'imposta progressiva, calcolata in base al reddito e in base alla
distanza del domicilio del contribuente dalla fermata più vicina e dal posto di
lavoro; sarebbe concepito in modo da permettere a chiunque di occupare qualunque
posto, secondo il principio che chi prima arriva viene servito prima: nessun
diritto di precedenza verrebbe riconosciuto al turista, al medico o all'autorità.
In un simile paradiso degli sciocchi tutti i passeggeri sarebbero uguali, ma anche
tutti in egual misura consumatori coatti di trasporto. Ogni cittadino di questa
Utopia motorizzata sarebbe egualmente privato dell'uso delle gambe ed
egualmente impegnato a far proliferare le reti di trasporto.
Certi
aspiranti stregoni travestiti da architetti propongono una speciosa soluzione
per uscire dal paradosso della velocità. A sentir loro, l'accelerazione
impone iniquità, perdite di tempo e programmazioni d'imperio solo perché la
gente non abita ancora nei volumi e nelle orbite più confacenti ai veicoli.
Secondo questi architetti futuristi bisognerebbe che alloggi e luoghi di lavoro
fossero concentrati in grandi torri autosufficienti, collegate tra loro da
rotaie per capsule superveloci. Soleri, Doxiadis, Fuller risolverebbero il
problema creato dal trasporto ad alta velocità rovesciando il problema stesso
sull'intero habitat umano: anziché chiedersi come preservare per gli uomini la
superficie della terra, si domandano come creare le riserve indispensabili per
la sopravvivenza umana su una terra che è stata ridisegnata in funzione dei
prodotti industriali.
Paradossalmente,
l'idea di una velocità massima dei trasporti ottimale per il traffico sembra
bizzarra o fanatica al passeggero incallito, mentre al mulattiere appare qualcosa
di simile al volo d'un uccello. Una velocità quattro o sei volte superiore a
quella di un uomo a piedi è una soglia troppo bassa perché il passeggero
abituale possa ritenerla degna di considerazione, e troppo alta per trasmettere
il senso di un limite a quei tre quarti dell'umanità che si spostano
ancora con forza propria.
Tutti
coloro che progettano, finanziano o organizzano l'alloggio, il trasporto o
l'istruzione altrui, appartengono alla classe dei passeggeri. La capacità
ch'essi rivendicano discende dal valore che i loro committenti attribuiscono
all'accelerazione. I sociologi sono capaci di spiegare in termini di informatica
gli ingorghi del traffico di Calcutta e di Santiago, e gli ingegneri sono in
grado di progettare ragnatele di monorotaie ispirate ad astratte nozioni di
flusso del traffico. Questi programmatori credono veramente nella possibilità
di risolvere i problemi con criteri industriali, sicché la soluzione reale
della congestione del traffico resta fuori della loro capacità di comprensione.
La fede nell'efficacia della potenza impedisce loro di scorgere l'efficacia
straordinariamente maggiore che si può ottenere astenendosi dall'usarla. Gli
ingegneri dei traffico debbono ancora mettere d'accordo in un unico modello
simulato la mobilità della gente con quella dei veicoli.
L'ingegnere
del trasporto non è in grado neanche di concepire la rinuncia alla
velocità e un rallentamento inteso a permettere un flusso di traffico ottimale
quanto al rapporto tempo/destinazione. Mai penserebbe di programmare il suo
computer ponendo come postulato che in città un veicolo a motore non debba mai
superare la velocità d'una bicicletta. L'esperto in sviluppo che dall'alto
della sua Land-Rover guarda con compassione il contadino indio che porta al
mercato il suo branco di maiali, non è disposto a riconoscere i vantaggi
relativi dell'andare a piedi. Tende a ignorare, l'esperto, che quell'uomo ha
evitato ad altri dieci abitanti del villaggio di perdere tempo per la strada,
mentre l'ingegnere e tutti gli altri membri della sua famiglia, l'uno
separatamente dall'altro, dedicano al trasporto una parte rilevante d'ogni loro
giornata. Per chi è portato a concepire la mobilità umana in termini di progresso
indefinito, non può esistere un tasso di traffico ottimale, ma solo un
transitorio consenso su una determinata possibilità tecnica del trasporto.
La
maggior parte dei messicani, per non parlare degli indiani e dei cinesi, si
trova in una situazione opposta a quella del passeggero incallito. La soglia
critica di velocità si situa completamente al di là di ciò che conoscono o
si aspettano. Essi appartengono ancora alla categoria degli uomini che si
spostano con forza propria. Qualcuno conserva il duraturo ricordo di
un'avventura motorizzata, ma i più non sanno cosa sia viaggiare a una velocità
vicina o addirittura superiore a quella critica. In due Stati messicani tipici,
il Guerrero e il Chiapas, nel 1970 neppure l'uno per cento della popolazione
ha percorso, anche una sola volta, più di sedici chilometri in meno di un'ora.
I veicoli nei quali si stipano a volte gli abitanti di queste regioni rendono lo
spostamento senza dubbio più conveniente, ma non molto più rapido che se si
andasse in bicicletta. L'autobus di terza classe non separa il contadino dal
suo maiale e li porta entrambi al mercato senza fargli perdere peso, ma questa
esperienza di “comfort” motorizzato non dà come risultato una dipendenza
da velocità distruttive.
L'ordine
di grandezza in cui si colloca la soglia critica di velocità è troppo basso
per essere preso sul serio dal passeggero e troppo alto per interessare il
contadino. E’ perciò ovvio che non si riesca a vederlo facilmente. La
proposta di fissare un limite alla velocità entro quest'ordine di grandezza
si scontra con una caparbia opposizione: da un lato infatti porta allo scoperto
l'intossicazione degli uomini industrializzati, schiavi di dosi d'energia sempre
più forti, dall'altro chiede a chi è ancora sobrio di astenersi da qualcosa
che non ha mai neanche assaggiato.
Proporre
una controricerca non è solo uno scandalo, ma anche una minaccia. La semplicità
mette in pericolo lo specialista, che si ritiene sia il solo a capire perché il
treno dei pendolari parta proprio alle 8,15 e alle 8,41 e perché convenga usare
una benzina provvista di certi additivi. Che attraverso un processo politico
si possa trovare una dimensione naturale, ineludibile e che segni un
limite, é un idea che non rientra nel mondo delle verità del passeggero. In
lui il rispetto per specialisti che neanche conosce si è tramutato in cieca
sottomissione. Se si potesse trovare una soluzione politica per i problemi
creati dagli esperti nel campo del traffico, allora si potrebbe forse applicare
lo stesso metodo ai problemi dell'istruzione, della medicina, dell'assetto del
territorio. Se dei profani attivamente impegnati in un processo politico
potessero determinare l'ordine di grandezza delle velocità veicolari ottimali
per il traffico, sarebbero allora scosse le fondamenta sulle quali poggia la
struttura di ogni società industriale. Proporre questa ricerca è
politicamente sovversivo; mette in discussione quel sovrano consenso sulla
necessità d'uno sviluppo del trasporto che permette ora ai campioni della
proprietà pubblica di definirsi avversari politici dei sostenitori dell'impresa
privata.
[1] Dall'epoca della pubblicazione di questo scritto (1973), sono state fatte e pubblicate molte ricerche sull'argomento; per una bibliografia ragionata si veda J.P. Dupuy e I. Robert, Les chronophages, cit.