L'industrializzazione del traffico
Prima
di esaminare come l'energia viene impiegata per lo spostamento delle persone,
occorre distinguere formalmente quelle che sono le due componenti del
traffico: il transito e il trasporto. Intendo per traffico qualsiasi
spostamento delle persone da un luogo all'altro quando sono fuori casa; per transito,
come già accennato, intendo quegli spostamenti che fanno uso dell'energia
metabolica umana, e per trasporto quelli che si avvalgono di altre
fonti di energia. Per l'avvenire queste fonti saranno per lo più motori, dato
che gli animali fanno ormai a gara con gli uomini nel morir di fame in un mondo
sovrappopolato, a meno che, come l'asino e il cammello, non si nutrano di cardi.
Appena
si arriva a dipendere dal trasporto, non solo per i viaggi che durano parecchi
giorni ma per gli spostamenti quotidiani, diventano acutamente palesi le contraddizioni
tra la giustizia sociale e la potenza motorizzata,. tra il movimento efficace e
l'alta velocità, tra la libertà personale e l'itinerario preordinato. Là
dipendenza forzata dalle macchine automobili nega allora a una collettività di
persone semoventi proprio quei valori che i potenziati mezzi di trasporto
dovrebbero in teoria garantire.
La
gente si muove bene con le proprie gambe. Questo mezzo primitivo per spostarsi
apparirà, a un’analisi appena attenta, assai efficace se si fa un confronto
con la sorte di chi vive nelle città moderne o nelle campagne industrializzate.
E riuscirà particolarmente suggestivo quando ci si renda conto che
l’americano d’oggi, in media, percorre a piedi - per lo più in tunnel,
corridoi, parcheggi e supermercati tanti
chilometri quanti ne percorrevano i suoi antenati. Coloro che vanno a piedi
sono più o meno uguali. Chi dipende esclusivamente dalle proprie gambe, si
sposta secondo lo stimolo del momento, a una velocità media di cinque o sei
chilometri l'ora, in qualunque direzione e per andare in qualsiasi posto che non
gli sia legalmente o materialmente precluso. Ci si aspetterebbe che ogni miglioramento
di tale mobilità connaturata prodotto da una nuova tecnologia del trasporto
salvaguardi quei valori e ne aggiunga degli altri, come un maggior raggio
d'azione, risparmio di tempo, comodità, maggiori possibilità per i menomati.
Sinora non è questo ciò che è accaduto. Anzi, lo sviluppo dell'industria del
trasporto ha avuto dappertutto l'effetto opposto. Questa industria, da quando
le sue macchine hanno potuto mettere dietro ogni passeggero più d'un certo
numero di cavalli-vapore, ha diminuito l'eguaglianza tra gli uomini, ha
vincolato la loro mobilità a una rete di percorsi disegnata con criteri
industriali e ha creato una penuria di tempo d'una gravità senza precedenti. Appena
la velocità dei loro veicoli varca una certa soglia, i cittadini diventano
consumatori di trasporto nel giro dell'oca quotidiano che li riporta a casa,
un circuito che gli uffici di statistica chiamano “ spostamento ” per distinguerlo
dal vero “ viaggio ” che si ha quando il cittadino, uscendo di casa, si
munisce d'uno spazzolino da denti.
Alimentare
con più energia il sistema di trasporto vuol dire che ogni giorno un numero
maggiore di persone si muove più velocemente su distanze superiori. Il raggio
quotidiano di ognuno si estende a scapito della possibilità di imbattersi in un
amico o di passare per il parco andando al lavoro. Si creano punte estreme di
privilegio con l'asservimento generale. Una élite accumula distanze incalcolabili
in tutta una vita di viaggi circondati da premure, mentre la maggioranza
spende una fetta sempre maggiore della propria esistenza in spostamenti non
voluti. Alcune poche persone viaggiano su tappeti magici fra punti remoti che la
loro effimera presenza fa apparire rari e insieme allettanti, mentre tutti gli
altri sono costretti a spostarsi sempre di più e sempre più in fretta sui medesimi
tragitti e a perdere sempre più tempo per prepararsi a questi spostamenti e
poi per riaversene.
Negli
Stati Uniti i quattro quinti delle ore/persona passate sulle strade sono di
gente che fa la spola tra casa, posto di lavoro e supermercato e che non sale
quasi mai su un aereo; mentre i quattro quinti delle miglia percorse in volo per
recarsi a congressi e in luoghi di villeggiatura sono coperti ogni anno da un
costante 1,5 per cento della popolazione, di solito benestanti o gente che si
tratta bene per condizionamento professionale. Quanto più veloce è il veicolo,
tanto più consistente è il sussidio che riceve da una tassazione regressiva.
Appena lo 0,2 per cento della popolazione degli Stati Uniti può decidere per
proprio conto di viaggiare in aereo più di una volta all'anno, e pochi altri
paesi possono permettersi un jet set così numeroso.
Sia
lo schiavo degli spostamenti quotidiani sia il viaggiatore impenitente si
trovano a dipendere dal trasporto: né l'uno né l'altro possono farne a meno.
Un volo occasionale ad Acapulco o a un congresso di partito fa credere al
passeggero ordinario di essere finalmente entrato nel mondo ristretto di coloro
che si muovono ad alta velocità. La possibilità occasionale di trascorrere
qualche ora legato con una cinghia al proprio sedile su un veicolo ultrapotente
fa di lui un complice della distorsione dello spazio umano e lo induce ad
accettare che la geografia del suo paese venga modellata in funzione dei veicoli
anziché delle persone. L'uomo si è evoluto fisicamente e culturalmente
insieme con la sua nicchia cosmica. Ciò che per gli animali non è che
l'ambiente, egli ha imparato a trasformarlo in propria dimora. La sua
autocoscienza richiede il complemento di uno spazio vitale e di un tempo di
vita integrati dal ritmo col quale egli si muove. Se questo rapporto viene
determinato dalla velocità dei veicoli anziché dal movimento delle persone,
l'uomo-architetto si riduce al livello di un mero pendolare.
L'americano tipo dedica ogni anno alla propria auto più di 1600 ore: ci sta seduto, in marcia e in sosta; la parcheggia e va a prenderla; si guadagna i soldi occorrenti per l'anticipo sul prezzo d'acquisto e per le rate mensili; lavora per pagare la benzina, i pedaggi dell'autostrada, l'assicurazione, il bollo, le multe. Ogni giorno passa quattro delle sue sedici ore di veglia o per la strada o occupato a mettere insieme i mezzi che l'auto richiede. E questa cifra non comprende il tempo speso in altre occupazioni imposte dal trasporto: quello che si trascorre in ospedale, in tribunale e in garage; quello che si passa guardando alla televisione i caroselli sulle automobili, scorrendo pubblicazioni specializzate, partecipando a riunioni per l'educazione del consumatore in modo da saper fare un acquisto migliore alla prossima occasione. L'americano tipo investe queste 1600 ore per fare circa 12.000 chilometri: cioè appena sette chilometri e mezzo per ogni ora. Nei paesi dove non esiste un'industria del trasporto, la gente riesce a ottenere lo stesso risultato andando a piedi dovunque voglia, e il traffico assorbe dal 3 all'8 per cento del tempo sociale, anziché il 28 per cento. Ciò che distingue il traffico dei paesi ricchi da quello dei paesi poveri, per quanto riguarda i più, non è un maggior chilometraggio per ogni ora di vita, ma l'obbligo di consumare in forti dosi l'energia confezionata e disegualmente distribuita dall'industria del trasporto.
L'immaginazione intontita dalla velocità
Superata
una certa soglia di consumo d'energia, l'industria del trasporto detta la
configurazione dello spazio sociale. Le autostrade si espandono, ficcando
cunei tra i vicini e spostando i campi oltre la distanza che un contadino può
percorrere a piedi. Le ambulanze spingono le cliniche al di là dei pochi
chilometri in cui è possibile portare in braccio un bambino malato. Il medico
non viene più a casa perché i veicoli hanno fatto dell'ospedale il posto più
giusto per stare malati. Basta che dei camion pesanti si arrampichino fino a un
villaggio delle Ande perché sparisca una parte del mercato locale. Poi,
quando nella plaza arriva la scuola media insieme con la strada
asfaltata, sono sempre più numerosi i giovani che si trasferiscono in città,
finché non rimane più una sola famiglia che non sogni di ricongiungersi con
qualcuno, laggiù, a centinaia di chilometri, lungo la costa.
A
velocità uguali corrispondono effetti ugualmente distorsivi sulla percezione
dello spazio, del tempo e delle potenzialità personali, nei paesi ricchi come
in quelli poveri, per differenti che possano essere le apparenze superficiali.
Dappertutto l'industria del trasporto foggia un nuovo tipo d'uomo adatto alla
nuova geografia e ai nuovi tempi che essa fabbrica. La differenza tra il
Guatemala e il Kansas è che nell'America centrale alcune province non hanno
ancora preso contatto con i veicoli e perciò non sono ancora degradate
dall'asservimento a essi.
Il
prodotto dell'industria del trasporto è il passeggero abituale. Costui
è stato catapultato fuori del mondo in cui la gente continua a muoversi da sé,
e ha perso la sensazione di stare al centro del proprio mondo. Il passeggero
abituale è conscio dell'esasperante mancanza di tempo provocata dal
quotidiano ricorso all'auto, al treno, all'autobus, alla metropolitana e
all'ascensore, che lo costringono a percorrere in media trenta e più chilometri
al giorno, spesso intersecando il proprio cammino, entro un raggio di otto
chilometri. E’ stato sollevato per aria. Sia che vada in metropolitana o in
jet, si sente sempre più lento e più povero di qualcun altro e pensa con
rabbia ai pochi privilegiati che possono prendere delle scorciatoie riuscendo
così a non subire la frustrazioni del traffico. Se è bloccato dagli orari del
suo treno per pendolari, sogna un'automobile. Se è in automobile, sfinito
dall'ora di punta, invidia il capitalista di velocità che corre contromano. Se
deve pagarsi l'auto di tasca propria, non riesce a dimenticare che i
comandanti delle flotte aziendali girano alla ditta le fatture della benzina e
mettono sul conto spese le macchine prese a nolo. Il passeggero abituale è il
più esasperato di tutti dalla crescente ineguaglianza, dalla penuria di tempo
e dall'impotenza personale, ma non vede altra via d'uscita da questo pasticcio
che non sia chiedere una dose maggiore della medesima droga: cioè più traffico
con mezzi di trasporto. Aspetta la sua salvezza da innovazioni tecniche nella
concezione dei veicoli e delle strade e da una diversa regolamentazione degli
orari; oppure spera in una rivoluzione che crei un sistema di trasporto veloce
di massa gestito dalla collettività. Né in un caso né nell'altro calcola
quanto costi farsi portare in un futuro migliore. Dimentica che sarà sempre
lui a pagare il conto, sotto forma di tasse o di tariffe. Trascura i costi
occulti che comporta la sostituzione delle auto private con trasporti pubblici
egualmente rapidi.
Il
passeggero abituale non riesce ad afferrare la follia di un traffico basato in
misura preponderante sul trasporto. Le sue percezioni ereditarie dello spazio,
del tempo e del ritmo personale sono state deformate dall'industria. Ha perso la
capacità di concepire se stesso in un ruolo che non sia quello del passeggero.
Drogato dal trasporto, non ha più coscienza dei poteri fisici, psichici e
sociali che i piedi di un uomo posseggono. E’ arrivato a prendere per un
territorio quel paesaggio sfuggente attraverso il quale viene precipitato. Non
è più capace di crearsi un proprio dominio, di dargli la propria impronta e di
affermarvi la propria sovranità. Non ha più fiducia nel suo potere di
ammettere altri alla propria presenza e di dividere consapevolmente con loro
lo spazio. Non sa più affrontare da solo le distanze. Lasciato a se stesso, si
sente immobile.
Per sentirsi sicuro in uno strano mondo in cui tanto le liaisons quanto la solitudine sono prodotti dei mezzi di trasporto, il passeggero abituale deve adottare una nuova serie di credenze e di aspettative. “Incontrarsi” significa per lui essere collegati dai veicoli. Giunge a credere che il potere politico discenda dalla portata di un sistema di trasporto o, in sua assenza, sia il risultato dell'accesso allo schermo televisivo. Ritiene che la libertà di movimento consista in un diritto alla propulsione. Crede che il livello della democrazia sia in correlazione con la potenza dei sistemi di trasporto e di comunicazione. Non ha più fede nel potere politico delle gambe e della lingua. Di conseguenza non vuol essere maggiormente libero come cittadino, ma essere meglio servito come cliente. Non tiene alla propria libertà di muoversi e di parlare alla gente, ma al suo diritto di essere caricato e di essere informato dai media. Vuole un prodotto migliore, non vuole liberarsi dall'asservimento ai prodotti. E’ dunque indispensabile ch'egli riesca a comprendere che l'accelerazione da lui ambita è frustrante e non può che portare a un ulteriore declino dell'equità, del tempo libero e dell'autonomia.
La
velocità incontrollata è costosa, e sono sempre meno quelli che possono
permettersela. Ad ogni incremento della velocità di un veicolo cresce il costo
della propulsione e della rete stradale e - cosa più drammatica di tutte -
aumenta lo spazio che il veicolo divora col suo movimento. Oltrepassata una
certa soglia nel consumo di energia per i passeggeri più veloci, si crea una
struttura di classe, su scala mondiale, di capitalisti di velocità. Il valore
di scambio del tempo diviene dominante, rispecchiandosi anche nella lingua: il
tempo si spende, si risparmia, s'investe, si spreca, s'impiega.
Quando una società segna un prezzo sul tempo, tra l'equità e la velocità
veicolare si stabilisce una correlazione inversa.
L'alta
velocità capitalizza il tempo di poche persone a un tasso spropositato, ma
paradossalmente lo fa deprezzando il tempo di tutti gli altri. A Bombay solo
pochissime persone posseggono un'auto; esse possono raggiungere in una
mattinata la capitale d'una provincia e fare questo tragitto una volta la
settimana. Due generazioni addietro ci sarebbe voluta un'intera settimana per
lo stesso viaggio, ch'era possibile solo una volta l'anno. Adesso spendono una
quantità maggiore di tempo per un maggior numero di spostamenti. Ma quelle
stesse poche persone, con le loro auto, scompigliano il flusso di traffico delle
migliaia di biciclette e di taxi a pedali che circolano nel centro della città
a una velocità effettiva tuttora superiore a quella possibile nel centro di
Parigi, Londra o New York. La spesa complessiva di tempo assorbita dal trasporto
in una società cresce assai più in fretta del risparmio di tempo conseguito da
un'esigua minoranza nelle sue veloci escursioni. Il traffico aumenta
all'infinito quando diventano disponibili mezzi di trasporto ad alta velocità.
Al di là d'una soglia critica, l'output del complesso industriale
costituitosi per spostare la gente costa alla società più tempo di quello che
fa risparmiare. L'utilità marginale dell'aumento di velocità d'un piccolo numero
di persone ha come prezzo la crescente disutilità marginale di questa
accelerazione per la grande maggioranza.
Oltre
una velocità critica, nessuno può risparmiare tempo senza
costringere altri a perderlo. Colui che pretende un posto su un veicolo più
rapido sostiene di fatto che il proprio tempo vale più di quello del passeggero
di un veicolo più lento. Oltre una certa velocità, i passeggeri diventano
consumatori del tempo altrui, e per mezzo dei veicoli più veloci si effettua un
trasferimento netto di tempo di vita. L'entità di tale trasferimento si
misura in quanta di velocità Questa corsa al tempo depreda coloro che
rimangono indietro e, poiché questi sono la maggioranza, pone problemi etici
d'ordine più generale della lotteria che distribuisce dialisi renali o
trapianti di organi.
Oltre
una certa velocità i veicoli a motore creano distanze che soltanto loro
possono ridurre. Creano distanze per tutti, poi le riducono soltanto per pochi.
Una nuova strada aperta nel deserto brasiliano mette la città a portata di
vista, ma non di mano, della maggioranza dei contadini poveri. La nuova
superstrada ingrandisce Chicago, ma risucchia chi è ben carrozzato lontano dal
centro, che degenera in ghetto.
Contrariamente
a quanto spesso si afferma, la velocità dell'uomo è rimasta invariata dall'età
di Ciro fino a quella del vapore. Con qualunque mezzo venisse portato il messaggio,
le notizie non potevano viaggiare a più di centosettanta chilometri al
giorno. Né i corrieri inca, né le galee veneziane, né i cavalieri persiani, né
i servizi di diligenza istituiti sotto Luigi XIV superarono mai questa
barriera. I soldati, gli esploratori, i mercanti, i pellegrini percorrevano al
massimo trenta chilometri al giorno. Per dirla con Valéry, Napoleone era ancora
costretto al passo lento di Cesare: Napoléon va à la méme lenteur que César.
L'imperatore sapeva che on mesure la prospérité publique aux comptes
des diligences (“la prosperità pubblica si misura dagli incassi delle
diligenze ”), ma poteva fare ben poco per sveltirle. Per andare da Parigi a
Tolosa ci volevano ai tempi dei romani circa duecento ore; nel 1740, prima che
si aprissero le nuove strade regie, la diligenza ce ne metteva ancora 158.Solo
l'Ottocento accelerò l'uomo. Nel 1830 la durata del viaggio era scesa a 110
ore, ma con un nuovo costo: in quello stesso anno si ribaltarono in Francia
4150 diligenze, causando la morte di più di mille persone. Poi la ferrovia
provocò un brusco mutamento. Nel 1855 Napoleone III sosteneva di aver toccato i
96 chilometri orari viaggiando in treno da Parigi a Marsiglia. Nel giro di una
generazione la distanza media percorsa annualmente dai francesi aumentò di
centotrenta volte, e la rete ferroviaria britannica raggiunse la sua massima
espansione. I treni per passeggeri toccarono il costo ottimale, calcolato in
termini di tempo dedicato al loro impiego e alla loro manutenzione.
Con
l'ulteriore accelerazione, il trasporto cominciò a dettar legge al traffico
mentre la velocità erigeva una gerarchia di destinazioni. A questo punto,
ogni gruppo di destinazioni corrisponde a uno specifico livello di velocità e
definisce una certa classe di passeggeri. Ogni circuito di punti terminali
degrada quelli che vengono raggiunti a una media oraria inferiore. Coloro che
devono spostarsi con forza propria si trovano riclassificati come emarginati
e sottosviluppati. Dimmi a che velocità vai e ti dirò chi sei. Se puoi
accaparrare per te le tasse che servono ad alimentare il Concorde, sei
sicuramente al vertice.
Nelle
ultime due generazioni, il veicolo è diventato simbolo della carriera fatta,
come la scuola è diventata simbolo del vantaggio di partenza. Ad ogni nuovo
livello, la concentrazione di potenza ha bisogno di trovare l'argomento che la
razionalizzi. Così, per esempio, la ragione che di solito viene data a
giustificazione del denaro pubblico che si spende per far percorrere a un uomo
un maggiore chilometraggio annuo in minor tempo è l'ancor più grande
investimento che si è già fatto per tenerlo a scuola un maggior numero di
anni. Il suo valore presunto come strumento produttivo ad alto contenuto di
capitale determina la tariffa alla quale viene trasportato. Oltre alla “ buona
istruzione ”, anche altre etichette ideologiche possono aprire l'accesso a
lussi pagati da altri. Se è vero che il Pensiero del Presidente Mao ha ora
bisogno di aerei a reazione per diffondersi in Cina, questo può voler dire
soltanto che per alimentare ciò che è diventata la sua rivoluzione sono
necessarie due classi, una delle quali vive nella geografia delle masse, l'altra
in quella dei quadri. La soppressione dei livelli di velocità intermedi ha
certo reso più efficiente e razionale la concentrazione del potere nella
Repubblica popolare, ma sottolinea anche che il tempo dell'uomo che si fa
portare dal bufalo ha un valore diverso da quello dell'uomo che si fa
trasportare in jet. Inevitabilmente, l'accelerazione concentra i cavalli-vapore
sotto le natiche di alcuni pochi e aggrava la crescente penuria di tempo di
cui soffre la massa degli altri aggiungendovi la sensazione di stare a
rimorchio.
In
generale, il fatto che la società industriale distribuisca in maniera
ineguale i suoi privilegi viene difeso e dichiarato necessario con un
ragionamento a due facce, la cui ipocrisia è messa apertamente in luce
dall'esempio dell'accelerazione. Per un verso il privilegio viene accettato
come presupposto indispensabile per determinare un miglioramento globale d'una
popolazione in aumento, per un altro verso lo si esalta come strumento per
elevare il tenore di vita di una minoranza indigente. Come si è visto, alla
lunga l'accelerazione del trasporto non fa né l'una né l'altra cosa: genera
soltanto una domanda universale di mezzi di trasporto motorizzati e crea
distanze prima inimmaginabili tra i vari livelli di privilegio. Oltre un certo
punto, più energia significa meno equità.