SCHEDA 6 gestione, privatizzazione e partecipazione |
![]() di maggio 2003 |
L’acqua, come l’aria ed il cibo, è una necessità vitale. In quanto tale dovrebbe essere considerata un diritto fondamentale dell’essere umano e gestita come un bene comune.
Il prezzo e il valore dell’acqua L’acqua è stata sempre un classico esempio di bene gratuito, ma da quando il problema della scarsità si è diffuso, si è iniziato ad attribuirle un valore economico. Il buon senso vorrebbe che in una situazione di crescente crisi idrica l’acqua sfuggisse a logiche economiche e fosse gestita nell’interesse collettivo con tutte le attenzioni e le forme di controllo pubblico necessarie. In realtà sta avvenendo l’esatto opposto. Il valore economico dell’acqua è legato ai costi necessari a captarla, distribuirla e, sempre più spesso, depurarla. Proprio perché l’acqua è un bene essenziale, parte di questi costi sono stati ripartiti sulla collettività attraverso la fiscalità generale.[1] Alcuni ritengono che questo sistema sia la causa di enormi sprechi, che l’acqua debba essere considerata e gestita al pari di un qualunque altro bene sul mercato, con un prezzo di vendita determinato dai costi di “produzione” e dalla legge della domanda e dell’offerta. I limiti del libero mercato sono ormai evidenti a tutti, ma nel caso dell’acqua le conseguenze possono diventare disastrose. Il diritto all’acqua, almeno nella nostra società, era garantito a tutti, anche ai meno abbienti. Nel mercato vengono prima gli interessi economici e poi i diritti delle persone, così saranno tagliati fuori dal servizio le famiglie meno abbienti e quelle comunità che possono richiedere investimenti maggiori (perché residenti in centri abitati isolati e non serviti da rete idrica). Altro rischio è che le imprese private che andranno a gestire l’acqua di una comunità si trovino in una situazione di monopolio, e quindi possano determinare i prezzi a loro piacimento. Consumi e sprechi La siccità ci richiama alla memoria immagini del deserto o di villaggi africani. Eppure anche nella ricca Italia la carenza di acqua è un problema reale e crescente. Un terzo degli italiani non gode di un accesso regolare e sufficiente all’acqua potabile, con punte dell'88,4% in Molise e Calabria, dell'82,4% in Campania, del 71% in Abruzzo. In parte questa situazione ha cause legate ai cambiamenti climatici, cioè alla riduzione delle precipitazioni. Ma le maggiori responsabilità sono legate ad una cattiva gestione del territorio e delle risorse. La risorsa acqua è sfruttata in maniera eccessiva e con enormi sprechi, mentre gli investimenti nell'industria dei servizi idrici sono meno di un terzo rispetto al 1985. L’Italia è il Paese dell’Unione Europea che preleva la più alta quantità d'acqua pro capite: 980 metri cubi per abitante all’anno, il doppio della Grecia e comunque più della Spagna (890) e della Francia (700). Siamo al primo posto come prelievi per usi domestici (249 litri per abitante al giorno (mentre ne basterebbero 60), molto di più della Francia (156) o dell’Austria (162). Dei 210 litri medi di acqua potabile pro capite, solo tre litri vengono usati per dissetarci, il 30% va a finire nello sciacquone del bagno, il 30% nelle lavastoviglie e lavabiancheria, alle docce e al lavaggio degli utensili. È stato calcolato che sprechiamo circa 18 litri d'acqua al giorno facendola scorrere dai rubinetti per avere l'acqua più calda o più fredda. Siamo ai primi posti in Europa come rapporto tra acqua prelevata e disponibilità della risorsa (secondi con il 32% dopo il Belgio). Nell’uso industriale abbiamo uno dei peggiori indici di consumo di acque per unità di prodotto: in Europa con un metro cubo di acqua mediamente si producono beni per il valore di circa 96 euro; in Italia solo per 41, contro circa 120 della Germania o i 200 dell'Olanda. Per quanto riguarda l'agricoltura, che nel nostro paese consuma tra il 50 e il 60% di tutta l'acqua prelevata, siamo uno dei paesi che consuma la più alta quantità d'acqua per ettaro irrigato: l’acqua necessaria ad irrigare un ettaro corrisponde al consumo domestico di 200 persone. A questi sprechi per usi impropri di risorse pregiate va aggiunto quello derivante dalle perdite degli acquedotti, in media del 30% con punte superiori al 50%. Ciò vuol dire che riportare le perdite media degli acquedotti italiani a livelli europei (diciamo ad esempio il 10%) potrebbe significare un considerevole aumento di disponibilità. La Sicilia, che vive ormai in maniera cronica l’emergenza acqua, è un caso emblematico: le risorse idriche e la rete distributiva potrebbero garantire l’accesso ininterrotto a tutti i siciliani, ma inefficienze funzionali sommate agli interessi della mafia e di proprietari di pozzi privati, che vendono acqua a caro prezzo, provocano periodiche emergenze in molte province. Le leggi dell’acqua in ItaliaLa prima legge ad occuparsi in maniera sistematica di acqua è il Regio Decreto n. 1775 del 1933 che sancisce la proprietà pubblica di tutte le acque e la necessità dell'intervento della Pubblica Amministrazione nel regolare le concessioni per garantire gli interessi pubblici. L’acqua è ancora vista come una risorsa illimitata da sfruttare, senza porsi alcun problema di tutela, infatti la struttura tariffaria non tiene conto della necessità di risparmiare o non inquinare l'acqua. Nel 1942, il Codice Civile specifica meglio il principio della pubblicità delle acque considerandole beni inalienabili del demanio pubblico. Legge MerliLa cosiddetta “Legge Merli” (n. 315 del 10 maggio 1976) fu la prima ad occuparsi di inquinamento idrico. Si occupava di scarichi industriali, civili e fognari, e fissava anche i primi criteri per la razionalizzazione dell’uso delle risorse idriche. Oggi questa legge è stata sostituita dal Decreto Legislativo 152 dell'11 maggio 1999. Legge 183 del 1989 La legge 183 del 1989 (Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo), oltre la difesa del suolo riguarda il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico. Definisce il “bacino idrografico” come ecosistema unitario: il territorio dal quale le acque si raccolgono in un determinato corso. Istituisce le “Autorità di bacino” che hanno il compito di gestire i fiumi nella loro interezza al fine di contenere il dissesto idrogeologico. Queste autorità sono chiamate a predisporre “Piani di bacino” che rilevino la situazione in atto, individuino i fattori critici e gli interventi necessari, programmino l'utilizzo delle risorse idriche e pianifichino gli interventi da attuare su base triennale. Tuttavia questa legge non ha ancora dato frutti positivi. Legge GalliLa legge 36 del 5 gennaio 1994, "Disposizioni in materia di risorse idriche", getta le basi per la riorganizzazione della gestione dell’acqua. Nelle premesse sancisce alcuni principi molto importanti. In primo luogo che "tutte le acque superficiali e sotterranee” sono pubbliche e rappresentano una risorsa che va “salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà", anche a beneficio delle generazioni future. Quindi stabilisce la priorità dell'uso dell'acqua per il consumo umano, e afferma la necessità del risparmio e del rinnovo delle risorse per salvaguardare gli equilibri ecologici. Questi principi lascerebbero pensare che la gestione dell’acqua sia incompatibile con il fine di lucro e il profitto di pochi. Eppure la stessa legge Galli costituisce una prima forte spinta verso la privatizzazione dell’acqua. Uno degli obiettivi più importanti della legge è ricondurre ad unità la gestione del “servizio idrico integrato”, cioè l'insieme dei servizi connessi all'acqua (captazione, trattamento, distribuzione, sistema fognario e depurazione). Il settore idrico in Italia si trovava in una situazione di forte frammentazione. Nel 1987 si contavano 5500 enti gestori, principalmente comuni o consorzi di comuni, per 6200 acquedotti. La legge mira a superare questa situazione e ad avviare una politica di pianificazione nazionale. Questa gestione unitaria deve avvenire attraverso Ambiti Territoriali Ottimali (A.T.O.) definiti in base all'idrografia e alla demografia. All’interno degli ambiti la gestione deve essere affidata ad un unico soggetto. Il compito di individuare gli A.T.O. e fissare le regole che disciplinano i rapporti tra i diversi enti locali presenti in uno stesso bacino è affidato alle Regioni Le Autorità di Bacino devono redigere un bilancio idrico: censire le acque disponibili e poi scegliere tra le diverse utilizzazioni richieste o possibili, dando priorità assoluta al consumo umano e consentendo ulteriori utilizzi solo se questo è soddisfatto. A partire da questo bilancio vanno predisposti i piani di bacino in funzione degli usi cui sono destinate le risorse. Il piano deve contenere il censimento di tutte le opere collegate alla gestione idrica e la pianificazione degli interventi necessari al mantenimento e ai nuovi investimenti. I piani finanziari di questi investimenti devono essere coperti dagli introiti derivanti dalla tariffa. In questo modo la tariffa diventa un "corrispettivo", cioè un prezzo, quindi l'acqua non è più un diritto del cittadino ma diventa una merce. Decreto Legge n. 152 dell’11 maggio 1999 Il Dlgs 152/99 recepisce le direttive comunitarie sulle acque reflue urbane (91/271/CEE) e sull'inquinamento da nitrati in agricoltura (91/676/CEE). Il decreto prevede la
tutela dell'ambiente idrico, da attuarsi attraverso la definizione dei
valori limite di emissione. Alle imprese spetta il compito di adeguare i propri scarichi ai limiti di emissione fissati. Da diritto a merce La legge Galli si è inserita in un clima politico di vera e propria ubriacatura per le privatizzazioni. Senza alcun fondamento reale si è cominciata a diffondere la convinzione che le imprese gestite dallo Stato o dagli enti locali fossero inefficienti e corrotte, mentre il libero mercato garantisce sempre e comunque le migliori prestazioni al minor costo. Questa convinzione è stata assunta a vero e proprio dogma. Nel giro di pochi anni, lo Stato ha messo in vendita gran parte del suo patrimonio. I servizi pubblici locali sono stati trascinati in questa furia privatizzatrice. Questa corsa alla privatizzazione è stata incoraggiata anche da studi che stimano gli investimenti necessari nel settore idrico in Italia attorno ai 50 miliardi di euro, affermando che siccome gli enti locali non potranno farvi fronte, dovranno ricorrere ad investimenti privati. Come se i privati avessero interesse a regalare capitali anziché investirli per fare profitti; in altre parole saranno sempre e comunque i cittadini a pagare quegli investimenti, ammesso che vengano fatti. L’obiettivo della privatizzazione è stato perseguito gradualmente, ed in maniera subdola, senza fornire ai cittadini una corretta informazione su quanto stava succedendo. La legge di riorganizzazione degli enti locali emanata nel 1999 (142/90), rispetto ai servizi pubblici, prevedeva diverse tipologie di gestione: da un lato la gestione diretta o "in economia", dall'altro l'affidamento dei servizi ad aziende speciali o a società per azioni a prevalente capitale pubblico locale, costituite o partecipate dall'ente locale. La costituzione di società per azioni con capitale a maggioranza pubblico ha rappresentato il primo deciso passo verso la privatizzazione dei servizi. La partecipazione di un privato, anche minoritaria, implica la persecuzione di una redditività dell'investimento. La legge Galli compie un altro piccolo passo verso la privatizzazione, ma non la rende obbligatoria come alcuni hanno voluto far credere. L’art. 10 elenca tra le forme possibili di gestione le aziende speciali di proprietà di enti singoli o consorziati. Poi indica anche le società per azioni, ma rispetto alla legge 142/90 elimina il vincolo che agli enti locali appartenga la maggioranza elle azioni. Su questa scia molti amministratori locali hanno voluto far credere ai propri cittadini che la società per azioni fosse l’unica modalità di gestione ammessa. La legge 267 del 2000, testo unico che riorganizza complessivamente l'ordinamento degli enti locali, recepisce il passo avanti operato dalla legge Galli rispetto alla legge 142, prevedendo l'affidamento del servizio a società per azioni senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria. Ma anche questa legge non obbliga gli enti locali ad affidare i servizi a società per azioni. Tuttavia molte amministrazioni locali si sono fatte prendere dalla foga, alcune per ingenuità, altre in palese malafede, e richiamando il rispetto di norme inesistenti si sono affrettate a trasformare le loro aziende speciali o consorzi in SpA. Alcune di queste hanno poi deciso di vendere una parte di azioni di queste aziende e anche di quotarle in borsa. Quando uno o più comuni decidono di costituire una SpA la necessità di capitali porta a privatizzare almeno una parte delle azioni. Chi acquista queste azioni vuole ottenere utili così anche l’amministrazione più attenta agli interessi generali dovrà adottare scelte di gestione improntate ai principi di mercato. Una volta affidato il servizio ad un soggetto privato, i rapporti sono regolati da contratti di servizio. All’ente pubblico resta il compito di controllare il rispetto di questo contratto, ma il rischio è che la necessità di ridurre i costi porti proprio ad una riduzione dei controlli, sia sul servizio che sulla qualità dell’acqua. A questo si aggiunge un altro problema tanto importante quanto sottovalutato. In questi anni di gestione pubblica le amministrazioni hanno accumulato una serie di competenze tecniche e di conoscenze che sono un patrimonio della collettività. Affidando la gestione all’esterno queste competenze sono destinate a perdersi e a diventare patrimonio privato, e l’ente pubblico sarà sempre meno capace anche di programmare e indirizzare, lasciando al gestore privato anche questo delicato compito. Esperienze di privatizzazioneLa privatizzazione del servizio idrico viene indicata come un processo di modernizzazione. Sarebbe bene ricordare che la gestione da parte di enti privati, agli inizi del 900 era molto diffusa, ma per garantire un equo accesso all’acqua ai cittadini era stato avviato un processo di municipalizzazione. Ora stiamo tornado al passato, consegnando un servizio così delicato ed indispensabile per la vita ad imprese private motivate solo dalla volontà di fare profitto. Le prime esperienze di privatizzazione in Italia offrono un quadro abbastanza desolante. In Toscana, nel 1999, si è costituita una SpA, il 54% a maggioranza pubblica, il restante 46% è stato attribuito ai privati con gara ad evidenza pubblica europea. La gara è stata vinta dalla multinazionale Suez Lyonnaise des eaux. Gli impianti sono sempre gli stessi, l'acqua anche, le bollette mediamente sono quasi triplicate e il bilancio è in rosso di circa 2.500.000 euro. Queste esperienze dimostrano anche il fallimento della tariffa come incentivo al risparmio idrico. Infatti dalla tariffa derivano i profitti dei gestori, che hanno tutto l’interesse a vendere più acqua possibile e nessun interesse a promuovere il risparmio idrico. In Francia già nel 1996 un'inchiesta rivelava che i prezzi praticati dagli operatori privati erano più alti in media del 28% rispetto a quelli praticati del settore pubblico. Il rapporto della Corte dei Conti del 1997 non lascia spazio ad ambiguità: "Il rialzo dei prezzi è da mettere in relazione con la privatizzazione". Ma nessun governo ha tirato le conclusioni implicite in questa affermazione. Il businessPer capire perché si sia arrivati a questo vero e proprio assalto all’acqua basta ricordare alcune cifre. Il ciclo dell’acqua in Italia ha raggiunto nel 2000 un fatturato di oltre 16 mld di euro (alcune fonti parlano addirittura di quasi 25 mld con l’indotto ecc.), occupando circa 160.000 addetti. In Europa le 12.000 imprese che complessivamente gestiscono il sistema, occupano quasi un milione di dipendenti e hanno prodotto un fatturato di 120 mld di Euro. Si tratta quindi di un grande business per il sistema imprenditoriale privato e per le multinazionali già largamente impegnate in Europa, nella conquista di questi spazi di mercato. Per la gestione dell’acqua si stima in Italia un valore della produzione di 2,8 mld di euro con un utile annuo di oltre 125 milioni e con un numero di addetti di circa 20.000 persone. Privatizzare è un dovere!!!Il colpo di grazia alla libertà di scelta degli enti locali arriva con la legge finanziaria del 2002 (448/01), il cui art. 35 modifica nuovamente le norme sui sevizi pubblici. Prevede che la proprietà degli impianti sia separata dalla loro gestione e affidata a società di capitali a maggioranza pubblica, mentre il servizio deve essere affidato ad una diversa società per azioni. Questo affidamento, per un periodo transitorio, può avvenire anche senza gara, purchè i comuni procedano alla vendita di una parte delle azioni. Successivamente la gara è resa obbligatoria In questo modo si è introdotto per legge, e l’Italia in questo è l’unico paese al mondo, l’obbligo di privatizzare il servizio idrico, alla faccia dell’autonomia locale e dell’autogoverno democratico delle realtà locali. Cinque regioni hanno deciso di impugnare questa norma di fronte alla Corte Costituzionale in quanto sarebbe in contrasto con le nuove norme sul federalismo. Contro L’art. 35, per altri motivi, si è espressa anche l’Unione Europea, e questo ha spinto il governo italiano a dichiarare la norma non applicabile. La norma è inapplicabile anche perché non è stato emanato il previsto regolamento attuativo. Spesso i sindaci hanno giustificato la trasformazione in SpA delle aziende richiamandosi a fantomatiche direttive europee. In realtà non esistono direttive europee che impongono agli enti pubblici di affidare la gestione dei servizi locali a società di capitali. Tant’è vero che in Francia gli affidamenti diretti sono la maggioranza e in Svezia e Danimarca sono praticamente l’unica modalità. ConclusioneA questo processo di privatizzazione è necessario porre un freno. In primo luogo occorre contestare, con dati reali, la imperante cultura della privatizzazione del mondo. In questa ottica difendere la gestione pubblica dei servizi è solo un primo passo, una forma di resistenza. Allo stesso tempo bisogna essere capaci di ripensarla da cima a fondo. Alla gestione pubblica burocratica e clientelare che abbiamo spesso conosciuto in questi anni va contrapposta un’idea di gestione pubblica partecipativa che coinvolga insieme lavoratori e utenti, che preveda dunque il controllo, la verifica, ma anche la pianificazione da parte di chi lavora a un servizio e di chi usufruisce dello stesso. La gestione statale dei sevizi, infatti, non garantisce che una serie di diritti siano sanciti una volta per tutte. Non ci si può nascondere che lo Stato non solo non è un ente benefico, ma è spesso uno strumento nelle mani di chi detiene il potere economico. Per questo è necessario che i cittadini tornino ad esercitare il loro ruolo, attraverso la partecipazione ed il controllo democratico. [1] Le tasse che i cittadini pagano non per uno specifico servizio, ma per le spese generali dello stato o dell’ente locale |
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